“La vita comincia a 40 anni, è un cliché ma è vero,” sorride Jay Kay, “E mi sento privilegiato e fortunato ad essere ancora in pista. E’ una cosa importante per me. E’ un percorso molto, molto, molto lungo. Nonostante quello che dice la gente, è il lavoro duro che fai nei live in quei primi anni che ti porta poi avanti – e penso che ciò si percepisca su questo disco. E qualunque cosa sia andata bene o male in passato, essere ancora in pista è fantastico”.
Se qualcuno avesse qualche dubbio da avanzare sullo stato di salute dei Jamiroquai, una delle realtà artistiche più interessanti e creative degli ultimi 20 anni, farebbe meglio ad ascoltarsi prima “Rock Dust Light Star”, settimo album studio della formazione e primo della nuova era Mercury Records. 18 anni di carriera, 25 milioni di dischi venduti, un Greatest Hits e qualche turbolenza da superstar di troppo dopo, Jay Kay riavvolge il nastro per ripartire da dove tutto era iniziato: “Emergency On Planet Earth”, anno 1993; basta con le superproduzioni che obbediscono in primis alla dura legge delle radio, basta con i video con i quadratini lampeggianti, basta con le inutili complicazioni, quando la bellezza e la formula giusta molto semplicemente si nascondono nelle cose più genuine.
“Bisogna smetterla di fare le cose troppo complicate! Adoro poter dire ‘oh, non è molto profondo questo testo…’” ammette l’artista con un interesse di lunga data per l’ecologia, la religione, lo spazio e la futurologia (e sicuramente per auto ed elicotteri). “Però, se ci pensi, alcune delle migliori canzoni della storia sono semplici. Ascolta Stevie Wonder ‘all in love is fair, two people play the game…’ [tutto in amore è permesso, due persone partecipano al gioco…], non sono cose che ti spaccano il cervello! Ma sono parole che ti colpiscono al cuore. A volte puoi cantare cose come ‘la mucca sedeva in cima alla collina’: se la comunichi nel modo giusto, funziona. È una regola d’oro!” commenta con tono realista. E come dargli torto. Per questo su “Rock Dust Light Star” Jay Kay mette in campo una sensibilità di autore che colpisce, visto il ‘personaggio’ che si è ritagliato in questi anni; come nel blues-reggae di Goodbye To My Dancer, che è “riferita più o meno a una persona che conosco, anche se ho fatto qualche cambiamento. Comunque, sì, è una ragazza con la quale uscivo che poi si è sposata”, il brano contiene tracce di quella “amarezza che ti rimane quando ti mollano. Ed è anche un po’ sfacciata, un po’ sconcia”. O ancora l’onestà travagliata di White Knuckle Ride, che espone i problemi della pressione a cui è stato sottoposto nel corso della sua lunga carriera, e lo smarrimento confuso del non saper cosa fare quando sai che quel che è giusto per te non sembra essere giusto per qualcun altro.
Dal punto di vista del sound, dimenticate i Jamiroquai che vi hanno fatto ballare ai party sulla spiaggia o che vi hanno messo addosso quell’elettricità del sabato sera. Non c’è spazio per Runaway, Feels Just Like It Should, né per Love Foolosophy o Canned Heat. Si torna alla pulizia rigorosa dei primi due album, quelli dove il funk era acido e il soul trovava una nuova forma di espressione nell’accompagnarsi alle strutturazioni del jazz; si mettono da parte le strumentazioni da migliaia di dollari e si lascia trapelare tutto il piacere di essere una band. Erano anni che i Jamiroquai non proponevano un disco così ‘suonato’, che mettesse in risalto non solo la personalità esuberante di Jay Kay e la sua vocalità eccezionale, ma anche il lavoro della band tutta. “E la cosa bella è che è live. Tutto sul disco è dal vivo. E’ il disco di una band vera. L’ultimo album… Fantastico, però suonavamo in studio poi la registrazione veniva tagliuzzata in sezioni. ‘Possiamo spostare il timbro del tamburo di un millisecondo?’, l’intero processo era molto asettico. Così questa volta ci siamo detti, deve essere tutto live. Si percepisce proprio il crescendo del disco, diventa sempre più forte. Quando improvvisi, hai una base da dove partire, come sul palco”. Quello che conta è solo ed esclusivamente il groove: “Se il brano non sta in piedi con solo tastiera e voce o chitarra e voce, lascia perdere”, ossia non occorrono produttori blasonati ad alzare il tiro se per primo tu non sei convinto di potercela fare da solo. E la voce di Jay Kay è più duttile che mai su questo album: “Sto usando la mia voce in modo un po’ diverso, forse più rilassato. Ho leggermente rallentato il ritmo. È importante crescere con la musica”.
Non solo: proprio perché l’ispirazione quando arriva, arriva, ma quando poi la devi valutare non sempre sei in quello stato di grazia in cui ti trovavi al momento della prima stesura, Jay Kay ha optato per la cieca fiducia nel suo intuito: “Quello che ho fatto con questo disco, per evitare di annoiarmi e poi prendere le decisioni sbagliate – tipo ‘oh non mi piace più!” – è stato registrare una canzone, portarla a un certo livello e poi non riascoltarla più per due mesi. E poi quando la riprendi in mano, la trovi fantastica”.
“Rock Dust Light Star”, co-prodotto insieme con Charlie Russell e Brad Spence, è stato registrato nello studio privato di Jay Kay, nell’ Hook End Manor nell’Oxfordshire ed in Thailandia. “Perché la Thailandia? Una specie di premio per i ragazzi. Nessun altro motivo particolare. No, anzi ti dico il perché! Lo studio laggiù aveva lo stesso identico mixing desk che abbiamo a casa ed era più economico andare là, con cibo e tutto incluso, che non continuare a Hook End e dover sopportare la deprimente pioggerella inglese di febbraio”. Non fa una piega. La tentazione di scorgere tra le righe il ‘vecchio’ Jay Kay – per intenderci, quello sempre sopra le righe e dai comportamenti non proprio edificanti – è forte, ma porterebbe ad un misero buco nell’acqua: Jay Kay ha scoperto l’understatement, e rifugge la sovraesposizione come se fosse il Diavolo. “Siamo a rischio,” ammette con franchezza. “Se non pubblicassimo questo disco adesso, saremmo già a rischio di finire nel dimenticatoio e la gente direbbe ‘ah sì, me li ricordo vagamente questi ragazzi’”. Ed è da molto tempo che non si hanno notizie di sue particolari ‘gesta’. Lontani i tempi in cui si faceva arrestare per aver alzato le mani contro qualche paparazzo e quelli in cui gli veniva sospesa la patente per eccesso di velocità e lui commentava candidamente: “Sono stato fortunato ad essere stato beccato a guidare a 180 km/h! Una volta ho fatto i 280 km/h, quella volta ho rischiato l’arresto e la prigione”. La collezione di auto di lusso (ne possiede ben 25!) è sempre parcheggiata nel garage della sua casa, però adesso Jay Kay ha scoperto l’elicottero (e lo pilota nel video di White Knuckle Ride) e non ha nessuna intenzione di combinare altri pasticci.
Il titolo dell’album “si riferisce proprio al materiale di cui siamo fatti. Siamo tutti composti da questa strana polvere di stelle. Ho pensato che sarebbe bello se potessimo anche guardare un po’ più verso l’esterno e non verso l’interno, che è il pregare. Se vedi un grosso lampo nel cielo, puoi anche metterti in ginocchio e pregare con tutte le tue forze ma questo certo non ci salverà. La religione ha molte cose di cui rendere conto su tutti i fronti. E quindi questa canzone in un certo senso è una specie di attacco contro questi dogmi religiosi. ‘La salvezza che arriva dal cielo?’ Lo capirai quando saremo colpiti da un meteorite grande come la tua stanza da letto a 40.000 miglia al secondo. Causerà un bel po’ di casini. Ci riporterà all’età della pietra in circa 38 secondi”.
L’ultimo sassolino dalla scarpa ancora da togliersi è quello delle passate divergenze con la sua precedente etichetta discografica, la Sony. Oltre la già citata White Knuckle Ride, un “racconto con la morale che parla del mio rapporto con il business ma si potrebbe benissimo applicare a tante altre situazioni”, “Mi sento ringiovanito sia dal punto di vista musicale che del business,” dice. Si sentiva “fisicamente distrutto” dopo i sette album per la Sony, l’etichetta che l’aveva messo sotto contratto a 22 anni. Sentiva che il rapporto era ormai esaurito, in tutti i sensi. Voleva “decidere le condizioni definitive”. Ma ora tutto è “andato al suo posto”. Un nuovo team alla Mercury, una partnership creativa rinvigorita con i suoi musicisti e produttori e addirittura una nuova passione impegnativa e carica di adrenalina come pilotare elicotteri. Jay Kay non è certo uno che sta fermo.
A riprova della sua passione per la musica, l’adrenalina e l’aria Jay Kay ha partecipato nel 2007 all’evento Gig In The Sky, un vero e proprio concerto in alta quota a 35.000 piedi tenuto in un aereo; organizzato e promosso da Sony Ericsson per lanciare il Greatest Hits “High Times: Snigles 1992-2006”, il Gig In The Sky ha proiettato i Jamiroquai nel Guinness dei Primati: concerto più in alto, concerto più veloce e “Travelling Without Moving” come album funk più venduto di tutti i tempi. James Blunt ha infranto questo record l’anno scorso, con un concerto a 41.000 piedi.
Ma adesso i Jamiroquai con “Rock Dust Light Star” sono pronti a ripartire – e dalla pole position.
web: www.jamiroquai.com
Elisa Bellintani
(29 gennaio 2011) |