Se lo chiedete a lei minimizzerà: “Ma no, in fondo non è stato così terribile”. Invece a leggere tra le righe delle scelte intraprese da Duffy (sparire per un po’, andare in posti dove nessuno la conosceva, cambiare manager) si percepisce come qualcosa debba essere effettivamente successo nella vita di una delle voci più riconoscibili ed amate del pop moderno, tanto da parlare di vera e propria rinascita per questo secondo album.
Nel 2003 Duffy partecipò ad un talent show nel natìo Galles, “Wawwfactor”, arrivando seconda; dopo una manciata di singoli di relativo successo, la svolta: Bernard Butler (Suede) le regala un iPod pieno di musica soul, così da educarla a costruire un sound retrò originale, reso ancora più unico dalla sua voce e dal suo modo di cantare. Nel 2008 arriva “Rockferry”, che tutti conosciamo: Mercy, Warwick Avenue, Rain On Your Parade… E 6 milioni e mezzo di copie vendute in tutto il mondo a sancire il trionfo della formula vintage soul, inaugurata da Amy Winehouse e portata avanti dalle “British Girls” Duffy, Adele ed Estelle.
Tutto bene? Insomma. Mentre fuori sorrideva a tutti quanti, dentro Duffy stava franando tutto: “Non sono un modello, non voglio questa responsabilità. Sono solo una ragazza come le altre”, si diceva; ma lei non era una ragazza come le altre, dato che le trasmissioni televisive invitavano lei, i concerti la reclamavano e la gente sembrava non averne mai abbastanza. “C’era qualcosa di sbagliato nella maniera in cui la promozione di ‘Rockferry’ è stata portata avanti, intendo per me; altrimenti non credo mi sarei sentita così strana”. Arriva addirittura a sfiorarle il pensiero di mollare tutto, e tornare magari ad essere la cameriera che era anni prima. Ma per fortuna la sorte ha in serbo per lei un incontro inaspettato, e una chance straordinaria: Albert Hammond, padre del chitarrista degli Strokes Albert Hammond Jr e cantante-autore-produttore, la sente e vuole incontrarla. Da questo momento in poi per Duffy l’entusiasmo per la musica ritorna ad essere una priorità. Mentre la sua Well, Well, Well è già tormentone (aiutata da una musicalità di immediata presa e dal martellamento pubblicitario), incontriamo Duffy per capire che cosa c’è dietro “Endlessly”.
Si sono scritte cose sul fatto che dopo “Rockferry” saresti entrata in crisi, fino a pensare di abbandonare la musica. Quanto c’è di vero?
“Oh no, tutto questo è eccessivamente teatrale… A volte succede che dici una cosa e chi la riporta la esagera, non apposta, o forse sì. Non è stato così terribile come si è detto!”.
Però sei sparita e hai cambiato manager. Questi sono segnali di un cambiamento in atto.
“Sì, è vero. Abbiamo lavorato bene io e Jeanette Lee, però eravamo arrivate alla fine di un percorso lavorativo; si è trattata di una separazione consensuale, se così si può dire, senza dolori né strascichi”.
Non capisco. Perché scrivere che l’hai vissuta così male se poi mi dici che non è andata così?
“Si è detto che ho attraversato un momento buio, e io non mi sono sentita così estrema. È vero, mi sono fatta delle domande e ho cercato di darmi le risposte, non è sempre facile mantenere il contatto con te stessa quando sei un’artista a cui la gente e la stampa ti danno spazio”.
Il successo ti ha creato qualche problema?
“Non il successo, anzi. Distinguo molto tra successo, fama e celebrità, sono tre facce della stessa medaglia ma ognuna con un valore diverso; di fama e celebrità mi importa poco, anzi, un po’ mi spaventano, il successo invece è un parametro personale e per me significa arrivare alle persone con la mia musica”.
I tuoi singoli sono stati tutti dei tormentoni, per cui possiamo dire che questo successo te lo sei conquistata?
“Oh ma non basta certo vendere qualche copia per poter dire di avere successo. Nemmeno un album ben fatto vuol dire successo. Occorre una carriera, 4 o 5 dischi, e in questo io ho ancora molto da dimostrare”.
Aver venduto 6 milioni e mezzo di copie con il tuo debutto non ti ha messo addosso un po’ di “ansia da prestazione”?
“Ad essere sincera no, ma questo perché io sono la prima critica di me stessa e pretendo sempre tantissimo da me e da quello che faccio. La pressione era interna, nel senso: sarò ancora in grado di comporre un album che mi soddisfi, che abbia un reale valore? So essere molto ossessiva e pignola. Però con ‘Endlessly’ sono contenta, e sicura di quel che ho fatto”.
Questo album suona liberatorio, quasi una rinascita. Cosa ti diceva la testa quando hai cominciato a scrivere le canzoni?
“Devi fare qualcosa di fresco, e mantenere la tua voce squillante, su di giri, che è come mi sentivo allora”.
Eppure sembra spaccato in due: le canzoni allegre, tutte da ballare, e quelle lente, nostalgiche.
“L’idea era quella di bilanciare i brani uptempo con quelli lenti, romantici, ma l’intento è sempre stato uno solo: far ballare la gente”.
Dal dancefloor scatenato ai lentoni romantici, insomma.
“Esattamente! Mi piacciono tutti e due questi momenti, scatenarmi con le amiche con una canzone che ti trascina in mezzo alla mischia così come stringermi al mio uomo e ballare un lento. Uno non esclude per forza l’altro. Il ballo, qualunque tipo di ballo, è una manifestazione di quello che si prova dentro”.
Quindi tu hai scritto di questi tuoi momenti romantici e nostalgici così come di altri più vivaci?
“Piangere e pensare al passato tante volte è necessario, però arriva poi il momento in cui devi superare tutto e uscirne, e ballare è un buon modo per farlo. Inoltre visti i tempi difficili che stiamo vivendo tutti, con la crisi e le incertezze sul futuro, ho pensato che alla gente servisse qualcosa per distrarsi”.
Fondamentalmente è un disco che parla d’amore; la cosa curiosa è che in certi punti diventi un po’ più esplicita, cosa che non ci saremmo mai aspettati da te! Ti stai emancipando anche come autrice?
“Mi fai arrossire! Però è vero, le cose stanno cambiando e le donne stanno acquistando sempre più sicurezza nell’esprimere i loro desideri; si è sempre pensato che le donne fossero sentimentali e romantiche, ma abbiamo anche un lato più concreto, che segue l’istinto e la passione. Per cui sì, questo è un disco di liberazione ma più che altro da me stessa”.
Ti sentivi in gabbia, prima?
“No, è solo che sto crescendo, diventando donna e le mie priorità sono cambiate. Ho più esperienza in tante cose. Credo si tratti soprattutto di un fattore anagrafico, più che del fatto che sono Duffy la cantante”.
Duffy la cantante si sente a suo agio a mettere in piazza cose personali come avviene in “Endlessly”?
“Smokey Robinson diceva: ‘Canto l’amore perché l’amore è eterno’. Certe volte non è facile e fa un po’ male, però penso che questo sia un grande pensiero; ad alcuni sembrerà naif, ma è la verità, e forse l’amore è l’unica cosa che ci accomuna tutti”.
“Endlessly” è stato co-scritto e co-prodotto da Albert Hammond. Come vi siete conosciuti? Il vostro sembra un incontro improbabile, se mi permetti.
“Assolutamente d’accordo! Mi ha vista in televisione una sera, gli sono piaciuta ed è stata sua moglie a dirgli: ‘Ma perché non la inviti qui e la conosci?’. E così mi ha chiamato e io, oh mio Dio, non lo conoscevo così bene, per cui sono piombata nel panico. Ma appena mi sono documentata e ho visto chi era e cosa aveva fatto mi sono detta: ‘Vai!’. È stato l’incontro più illuminante della mia carriera”.
La vostra differenza di età è notevole, tu hai 26 anni e lui 66. Hai sentito il gap generazionale?
“Affatto! Ci credi che tra i due era lui quello giovane e io quella anziana? Io ero così concentrata e lui si faceva prendere dall’entusiasmo, se nella testa gli frullava una linea nuova mollava la canzone su cui stavamo lavorando per dedicarsi a un’altra”.
Altro fatto inedito: accostare il tuo mondo a quello di Albert Hammond a quello dei The Roots (che suonano in Well, Well, Well). Non è un po’ ardito?
“Io l’ho trovato delizioso! Sono una grande fan di ?uestlove, e i The Roots sono degli ottimi musicisti in tutto quello che fanno con una solidissima cultura musicale alle spalle. Una volta che li ho fatti ascoltare ad Albert è stato facile: ‘They’re in’, mi ha detto”.
Che cosa ti ha insegnato?
“Ad essere sempre sincera e diretta”.
Qual è il momento magico che ricordi di questa vostra collaborazione?
“Quando abbiamo finito Well, Well, Well. Entrambi ci siamo guardati e ci siamo detti: ‘Funzionerà’. Sentivamo di aver appena scritto qualcosa di potente, che la gente avrebbe amato”.
Proprio questa canzone parla di gelosia, ma da una prospettiva poco praticata: è la donna a dover subire il terzo grado dal fidanzato. È una situazione che hai vissuto in prima persona?
“Sì certo. Ed è proprio così che io gli rispondevo: ‘E allora?’. Oggi le donne sono libere di alzare la testa e, davanti ad un fidanzato troppo geloso e senza motivo, anche di andarsene. Un tempo non era così semplice”.
Come ha fatto tua madre.
“Sì, lei era una donna avanti per i suoi tempi, e in nome dell’onestà ad ogni costo ha dovuto sopportare molte cose”.
Cos’altro hai imparato da lei?
“A vestirmi! Sembra banale ma è così, a lei è sempre piaciuta la moda, gli abiti bon ton, e sono cresciuta con il rispetto per la forma che scegliamo di prendere verso il mondo. È lei la mia grande ispirazione”.
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