Milanesi di origine ma con un passione viscerale per la musica popolare americana, Johnnie Selfish & The Worried Men Band sono un caso raro nel panorama musicale italiano: non solo affrontano un genere, quello del country e del folk americano, difficilmente accarezzato da gruppi nati nei limiti della nostra penisola, ma riescono a farlo coniugando quel linguaggio musicale con temi di attualità. In più, con lo spirito che caratterizza ogni sana realtà indipendente, negli ultimi anni hanno divorato letteralmente palchi su palchi, di città in città così come in importanti festival di genere, fino ad arrivare a suonare dall´altra parte del globo, in Giappone. Ora, a distanza di due anni dall´esordio discografico con “Jungle Rules”, pubblicano il loro secondo lavoro autoprodotto, “Committed”: un album che racchiude l´attualità e la racconta attraverso tematiche portanti della poetica blues come l´isolamento, la ricerca di riscatto sociale e spirituale, l´amore. Di questo, e non solo, ci hanno parlato infatti durante la nostra chiacchierata.
Parlatemi un po´ di voi: com´è nato il gruppo, e come avete scelto questo genere musicale?
“Come gruppo siamo nati tre anni fa, nel 2007, anche se ci conosciamo da molto prima, in tre addirittura dai tempi del liceo, anche se abbiamo avuto altre esperienze con gruppi di altro genere e strutturati in maniera completamente diversa. Poi per una serie di casualità, sopratutto per la vena artistica e per il modo di scrivere di Johnnie abbiamo deciso di iniziare questa esperienza in un nuovo genere, e da due o tre che eravamo abbiamo raccolto altri elementi. La scelta del genere è nata da una passione che avevamo fin da adolescenti, è stata la realizzazione di un´idea di cui si parlava già parecchi anni fa e che, probabilmente grazie all´età, si è approntata più concretamente”.
La scelta di fare musica come la vostra è abbastanza particolare per il nostro paese, anche se il country rock e il blues stanno avendo un ruolo importante nella musica degli ultimi anni, soprattutto all´estero con band che fanno del folk il loro linguaggio principale. Secondo voi com´è la scena italiana, dal vostro punto di vista?
“Siamo convinti che da 5 o 6 anni a questa parte a livello mondiale si stia vivendo un revival di quel genere e di quel periodo, è indiscutibile. Anche a livello italiano c´è sicuramente una crescita di interesse, e rispetto agli anni ´90 e ´80 queste sonorità sono più vicine all´esperienza di tutti: diciamo però che spesso chi porta avanti questo genere, chi lo segue, si ferma all´aspetto... I cappelli da cowboy, gli stivali, cose del genere. In più è una musica che spesso viene suonata da persone di una certa età e quindi è poco vicino all´esperienza dei giovani, che di solito sono quelli che ascoltano più musica e sono più aperti verso il nuovo. In questo contesto ci siamo inseriti noi, non per una strategia calcolata ma per una casualità, e il fatto di avere un´immagine molto più tranquilla e meno stereotipata ed essere anagraficamente più giovani ci ha portato fortuna... Oltre al fatto che gruppi che fanno questo genere nella nostra generazione, in Italia, ce ne sono pochi. Quindi tendenzialmente il mercato è stato facile da conquistare, anche se per ora non è stato conquistato: suoniamo spesso, certo, però c´è ancora molto da fare”.
Parliamo del nuovo album, “Committed”. Di cosa parla, e cosa significa il titolo?
“Bisogna dire innanzitutto che mentre il nostro disco precedente era una raccolta di brani che avevamo prodotto e scritto durante il primo periodo in cui suonavamo assieme, e che quindi non avevano legame particolare tra di loro, questo secondo lavoro è più di concetto: siamo partiti con l´idea di fare un album che parlasse dei problemi odierni della classe lavoratrice a cui apparteniamo, una sorta di riscatto sociale e spirituale all´interno della società moderna. E´ un tema affrontato sia attraverso liriche esplicite, quindi pro-operai e anticlericali, sia attraverso canzoni che parlano d´amore con un taglio particolare, testi sociali ma anche tematiche universali. Per quanto riguarda il titolo, ´committed´ è una parola difficile da tradurre in italiano perché non ha un corrispondente, è un attributo che sta alle cose che hanno un destino segnato, una missione: per farti un esempio, i ´committments´ sono i comandamenti”.
In che modo, oltre al concetto, questo disco si distanzia dal precedente “Jungle Rules”?
“Diciamo che c´è stato un bel progresso sotto diversi punti di vista. Per prima cosa quello dei mezzi, visto che ´Jungle Rules´ lo abbiamo registrato in casa con un solo microfono; poi è cambiato l´organico e abbiamo più esperienza. Prima eravamo solo in quattro e ce la giocavamo tra di noi come potevamo, con un suono anche più scarno, poi abbiamo aggiunto strumenti un po´ più tradizionali e caratteristici come lap steel guitar e il banjo, e nel frattempo abbiamo fatto centinaio di concerti che ci hanno aiutato a capire cosa andava bene fare e cosa invece era meglio evitare”.
Come mai avete optato per autoprodurvi completamente? E´ stata una necessità oppure una scelta che nasce dalla volontà di seguire tutto il processo creativo?
“E´ una combinazione delle due cose. Innanzitutto ci ha aiutato il fatto di non aver ricevuto offerte concrete da parte delle case discografiche, che spesso cercano di gestire le cose come preferiscono, soprattutto se vedono un risvolto economico: per noi invece, soprattutto per il genere che facciamo e per i personaggi a cui ci ispiriamo, era fondamentale avere più che carta bianca sul prodotto da fare. Quindi è stata anche scelta naturale e anche estremamente saggia, visti i risultati”.
Quali sono state le vostre influenze nel registrare “Committed”? Ascoltandolo si sentono molti riferimenti chiari soprattutto a Johnny Cash, sia in Burn, Burn, Burn che in Dignity.
“Johnny Cash è senza dubbio una delle nostre stelle polari, così come lo sono anche tutti gli artisti e i pensatori a cui si ispirava, da Woody Guthrie a Bob Dylan; anche il nome stesso della band è un chiaro omaggio al mondo di Johnny Cash. A livello di sonorità invece ci piace molto Hank Williams, che è un po´ precedente a Cash, mentre per i testi ci ispiriamo anche ad artisti di generi diversi: Bob Marley, Peter Tosh o i Clash e la scena punk anni ´70, di cui ad un ascolto attento si trovano sicuramente i riferimenti”.
E in tutto questo la cover di About a Girl dei Nirvana come si inserisce?
“E´ una cosa che è nata da un´idea estemporanea, abbiamo semplicemente entito la canzone per radio e abbiamo pensato che sarebbe stato carino farne una versione western. Ultimamente poi questa formula in cui gruppi molto caratterizzati reinterpretano brani di generi lontani è una cosa che funziona e va molto: lo abbiamo sentito fare nel reggae agli Easy Star All Stars e nel country agli Hayseed Dixie, per i quali tra l´altro abbiamo aperto un concerto non più di un mese e mezzo fa. Anche noi nel nostro piccolo abbiamo provato a creare un prodotto del genere e per ora è uno dei brani più apprezzati, dal vivo”.
Qual´è la canzone del disco che preferite, o a cui vi sentite più legati?
“Beh, ce ne sono un paio che ci portiamo dietro un po´ di tempo. Una è I Got Two, che abbiamo ripreso da ´Jungle Rules´ e abbiamo riproposto con Veronica Sbegia e Max De Bernardi al mandolino, mentre l´altra è Let´s Get To LaJolla che è stato uno dei primissimi brani che abbiamo scritto e che avevamo deciso di escludere dal primo album”.
Ci saranno anche dei videoclip estratti da “Committed”?
“Sì, qualche settimana fa abbiamo fatto le riprese per videoclip autoprodotto per Song For The Workin´ Class, che è un po´ l´inno dell´album oltre ad essere la canzone da cui è partito tutto, e per cui stiamo realizzando un video di fiction, che racconta una storia. Ce ne sarà poi anche un altro per Burn, Burn, Burn che sarà invece un montato di registrazioni dal vivo”.
So che di recente avete anche fatto un tour in Giappone... Com´è andata?
“E´ stata un´esperienza di per sé bellissima, e fa strano quasi pensare di averla fatta. Anche quella è una cosa che è nata per caso: un nostro amico è andato da quelle parti per un viaggio di piacere e ci ha girato una serie di contatti di promoter giapponesi; abbiamo spedito un po´ di mail e uno di loro ci ha risposto entusiasta e ci ha offerto di fare un giro nel Giappone del sud. Ci siamo limitati alla zona di Osaka e Kyoto e abbiamo suonato in locali molto underground, che qui sarebbero definiti centri sociali ma che ovviamente in Giappone non esistono, posti underground dove quasi quotidianamente si fanno concerti. Avevamo sempre dei gruppi giapponesi in apertura e il feeback è stato veramente eccezionale, ci hanno invitati a tornare”.
Visto che nonostante per il genere non facile e il fatto che siete autoprodotti state avendo successo, che consigli dareste ad altre band che vogliano muoversi nella musica italiana?
“Gli diremmo che forse al giorno d´oggi è più facile autogestirsi piuttosto che aspettare chissà quale contratto o opportunità vantaggiosa, e che sul lungo termine un po´ di autoimprenditorialità viene molto premiata: visto che i margini sono molto bassi è meglio evitare un intermediario e cominciare a crearsi un proprio giro e un proprio ambiente, oppure un proprio tour, e poi solo in seguito valutare proposte, perché quelle arrivano sicuramente in un secondo momento. Bisogna crederci fin dall´inizio e cercare con le proprie forze di superare i primi rifiuti, che immancabilmente arrivano, e andare avanti. Poi alla fine si riesce a fare tutto, non è assolutamente impossibile”.
web: www.myspace.com/johnnieselfish
Alberto Lepri
(17 dicembre 2010) |