Dai suoi occhi ´partono dei missili´, e i suoi aliti non ´fanno delle nuvole che fanno piovere´, per parafrasare le sue canzoni. Vasco Brondi (meglio conosciuto come Le luci della centrale elettrica) le parole le sa usare e dosare bene, merce rara nel panorama di proposte musicali che spesso la promozione discografica propone, e le muove sentendole tutte, fino all´ultima allitterazione, e portando chi lo ascolta a pensare, pensare e ancora pensare; che poi è quello che il cantautore dovrebbe fare, suggerire con l´arte per condividere una sensazione. Quella che Vasco racconta è la vita di un ragazzo di provincia (Ferrara, ma potrebbe essere qualunque nostra italiana città) fin troppo consapevole di quanto lo circonda, la precarietà degli Assoluti, la fragilità dei sentimenti.
Dopo l´incredibile riscontro avuto dal debutto "Canzoni da spiaggia deturpata" (2008) e la vincita della Targa Tenco come Migilore Opera Prima cantautorale dell´anno, dopo il libro "Cosa racconteremo di questi cazzo di anni zero" che raccoglie materiale verbale del suo blog, arriva "Per ora noi la chiameremo felicità". E Vasco, ancora una volta, non delude.
Successo e riconoscimenti per te sono arrivati all´improvviso, che sei ancora giovanissimo. Hai sentito il peso della pressione nell´affrontare questa seconda tua prova?
"Credo che ci sia una sorta di malinteso su tutto questo ´successo´ di cui si parla. Credo che molta sia autosuggestione degli addetti ai lavori e chi segue la scena musicale ´indipendente´ composta da moltissime cose che non si caga nessuno e da poche che si caga qualcuno in più, ma mica poi tanti in più. Mi sono rimesso nella posizione di non avere niente da perdere perché effettivamente così è, non ho intenzione di amministrare nessuna carriera o di mantenere qualche ipotetica posizione sociale, cerco di fare quello che mi pare, come si suol dire".
Che cosa ha significato per te vincere la Targa Tenco nel 2008?
"Sono stato contento, non ha stravolto niente, siamo andati due giorni a Sanremo a suonare in un teatro che pioveva sempre e ci siamo divertiti molto. Eravamo un po´ marziani ma è stata la dimostrazione che non sempre devi conoscere qualcuno per arrivare da qualche parte e che soprattutto una produzione da zero euro può essere interessante come o di più di una produzione da 100.000".
Qual è la molla, la spinta che ti ha portato a scrivere i testi di "Per ora noi la chiameremo felicità"?
"Mi sa che è sempre quella da quando scrivevo che avevo quindici anni e non so dove sia ne cosa sia, o forse in qualche modo lo so ma una di quelle tante cose che capisci e basta e non riesci a spiegarle. È il rapporto tra quello che succede attorno e quello che succede dentro, una specie di equazione irrisolvibile che poi sarebbe quella che chiamiamo realtà".
Cosa è cambiato nel tuo modo di affrontare la scrittura da "Canzoni da spiaggia deturpata" a "Per ora noi la chiameremo felicità"?
"Non credo che sia cambiato, rispetto una sola regola come diceva Pazienza: viscere sul tavolo".
Hai scelto un estratto di una canzone di Leo Ferré per intitolare il tuo disco. Che legame senti con La Solitudine? Léo Ferrè è una delle tue figure di riferimento artistico?
"È una frase che mi rimane impressa da qualche anno, da quando conosco quella canzone. Mi ronzava tantissimo in testa mentre scrivevo e poi è stato automatico farlo diventare il titolo, come un contenitore. Mi piace quella grandiosa solitudine che ti fa prendere tante piccole o gigantesche decisioni, che ti cambia le idee. Léo Ferré non lo conosco neanche benissimo, c´è un´altra canzone incredibile che si chiama Tu non dici mai niente, sicuramente mi hanno fatto qualcosa. Non credo di avere particolari figure di riferimento artistico nel senso che poi finisco con il confonderle con altre figure che sono solo miei amici oppure dei passanti oppure dei venditori di giornali oppure dei bevitori di patrimoni".
“La disperazione è una forma superiore di critica, per ora noi la chiameremo felicità”. Questo disco per te è più avvicinabile alla disperazione o alla felicità?
“´La disperazione è una forma di critica, per ora noi la chiameremo felicità´. In questo senso sono praticamente sinonimi, sono entrambi motori propulsivi, l´importante e non avere quegli elettrocardiogrammi piatti di cui si parla in una canzone".
Queste canzoni descrivono con particolari ed emozioni una realtà spesso dura e ostile, senza proporre una ‘soluzione’ o dare una esplicita opinione su come fare a uscirne. Tanti ragazzi ti seguono e cantano ai tuoi concerti le tue canzoni. Come ti senti nei panni di ‘guida’ per la generazione della provincia?
"Non mi sento, non ho bandiere da sventolare per farmi seguire. Mi piace pensare che Le luci della centrale elettrica siano anche tutte le persone che ci si ritrovano. Mi piace pensare che abbiamo tutti un ruolo attivo in questo e a chi incontro in giro o che ne incrocio gli sguardi ai concerti mi sembra che non ci sia neanche bisogno di dirglielo".
“Falliscono le case discografiche”. Da artista, cosa pensi del lento naufragio che le discografiche stanno patendo?
"Penso che se la siano cercata e che fosse logica e prevedibile. Hanno trattato per decenni la musica come una cosa morta da vendere come se fosse un elettrodomestico, non come qualcosa sempre in movimento con la realtà. Che cambia di continuo e da tutti i punti di vista: nei contenuti, nel modo di produrla, nei suoni, nel modo di essere vissuta, condivisa e ascoltata. Le case discografiche si sono scollate da questo e tuttora riescono magnificamente a fare finta di niente nonostante i loro corridoi gloriosamente deserti. La Tempesta non è mai andata così bene come in questo periodo di ´crisi discografica´ anzi è nata nel momento peggiore per le case discografiche e nessuno di noi si lamenta di niente. C´è un approccio non discografico, è un collettivo, senza nessuno che ci lucri sopra, ognuno segue le sue cose sporcandosi le mani e le canzoni rimangono di chi le ha scritte".
Quale scialuppa di salvataggio lanceresti alle discografiche per aiutarle a stare a galla?
"Lancerei dei mattoni per farle affondare prima. E almeno evitare di vedere le ultime scene grottesche".
In un ipotetico naufragio, chi vorresti salvare insieme a te sul gommone?
"Quelli che le stanno derubando".
Sei rimasto alla Tempesta Dischi, perché? Mai stato tentato dalla logica delle major?
"Adesso siamo anche fortunati che non si pone più di tanto il dilemma. Anche da un mero punto di vista economico non ha senso. Loro possono darti tanti soldi per registrare di cui sostanzialmente non hai bisogno, il disco l´ho registrato per gran parte in camera mia e in uno studiolo di Ferrara. E di quel vil denaro comunque non vedresti niente sarebbero spese di produzione. Poi devo dire che ho pensato alla mia qualità della vita, cioè non dover aver a che fare con persone che ragionano in un modo che ignoro e antirealistico. Non so, forse ad un gruppo veramente conosciuto o che veramente vende tanti dischi e con un passato glorioso può essere utile mettersi il passamontagna e fargli calare definitivamente le braghe, non saprei. Bisogna dire che anche gli stereotipi sono saltati nel senso che mi avrebbero fatto pubblicare lo stesso disco che uscirà per La Tempesta senza cambiare una virgola e anche senza neanche ascoltarlo prima".
“L’amore ai tempi dei licenziamenti dei metalmeccanici”: qual è il ruolo di un sentimento assoluto come l’Amore in un mondo dove di assoluto non è rimasto pressoché più nulla?
"Credo che il suo ruolo sia soprattutto quello di destabilizzare. Di farci crollare. È bellissimo perché é antifunzionale. È un intralcio gigantesco nelle nostre vite occidentali e funzionali. Con i nostri tempi stretti e la nostra razionalità e la mania di tenere tutto sotto controllo. Il suo ruolo è quello di farci fare cose controproducenti e credo che sia un ruolo stupendo".
La Politica e la Società entrano nelle tue canzoni in maniera prepotente, ma mai da militante. Che valore ha oggi parlare di Politica? È ancora possibile fare politica con la musica?
"Purtroppo c´è questo problema che si usa il termine ´politica´ anche quando le televisioni e i giornali parlano di quella che si dovrebbe più propriamente chiamare ´partitica italiana di merda´. É un grande malinteso. Io credo che sia un disco politico ma come dicevo prima senza bandiere da sbandierare, politico perché parla dei rapporti, di quell´amore di cui dicevamo e tutto questo vissuto in un panorama, in uno sfondo di cose che succedono e che è giusto che ci tocchino. Cose che succedono non nei telegiornali, quella non è esperienza, cose che ci succedono a due centimetri".
La parola è la protagonista assoluta della tue canzoni. Ti senti più Autore o Artista?
"Falegname".
Qual è la differenza tra scrivere canzoni e scrivere pezzi per “Cosa racconteremo di questi cazzo di anni zero”?
"Quello è un libro di esondazioni. Di cose che scrivevo mentre stavo scrivendo anche queste canzoni. È stato una specie di ponte tra i due dischi dove ci sono anche cose che non riuscirei a dire a voce".
Quali sono i tuoi autori cult?
"I primi che mi vengono in mente che sono anche geograficamente vicinoi a me sono Gianni Celati, Piervittorio Tondelli, Wu Ming, Nanni Balestrini".
Un libro e una canzone che vorresti avere scritto tu.
"Ce ne sono moltissime sia di canzoni che di libri. Bene di De Gregori direi oppure Chiudi gli occhi (la vita è un sogno) di Fausto Rossi. Un libro ´Le straordinarie avventure di Penthotal´ di Andrea Pazienza, così saprei anche disegnare incredibilmente".
Quanto studio c’è dietro questo ‘feticismo’ della parola che è una delle tue cifre stilistiche?
"C´è la falegnameria di cui parlavo, fatta di scintille e di lunghe martellate".
Alcune critiche ti sono state fatte proprio per questo uso particolare che fai delle parole. Pensi di essere visto come un cantautore ‘scomodo’ in una qualche maniera?
"Le critiche mi vengono fatte per qualsiasi cosa anche per come mi appoggio al bancone per bere una birra da quando invece che venire ai concerti dieci persone ne vengono mille, magari mi venissero fatte per l´uso che faccio delle parole".
Hai scelto di collaborare con diversi amici speciali, da Andrea Bruno che ha curato l´artwork a Enrico Gabrielli, Stefano Pilia, Rodrigo d´Erasmo e Giorgio Canali... Qual è l’affinità elettiva con queste persone?
"Sicuramente sono anche tra gli amici più cari e con cui mi capisco di più che ho incontrato da quando mi sono messo a fare questo, aggiungo anche Paolo Mauri che ha mixato il disco dando un apporto enorme".
Dopo Gipi, Andrea Bruno. Come mai disegni e mai foto? È un caso o c’è una precisa ragione?
"Abbiamo lavorato molto e anche assieme sulle illustrazioni e la grafica del disco, credo che i disegni riescano a spiegare in un altro modo il disco e gli danno i colori e la temperatura giusta. Così come la coprtina di Gipi dava lo sfondo dove ambientarle. Di certo non avrei messo un mio primo piano in copertina e di questo credo me ne siano tutti grati".
Come vedi il ruolo delle Luci della centrale elettrica nel panorama musicale italiano?
"Spero sempre di fare più storia e geografia che musica".
A chi dedichi questo disco?
"A questi anni dieci che verranno".
web: www.leluci.net
Elisa Bellintani
(26 novembre 2010) |