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 INTERPOL
INTERPOL PROFONDO NOIR
PROFONDO NOIR

Non sono canzonette, e non sono nemmeno innocue melodie disegnate con lo scopo di intrattenere; entreranno nella testa, questo sì, ma il congegno scatta solo quando riesce ad afferrare quelle brutte sensazioni disagio a cui non riusciamo a dare un nome, e che loro sembrano così bravi a raccontare.

Il nuovo album degli Interpol si chiama proprio come loro: un segnale forte, senza dubbio. Di personalità, di intensità, di identità, soprattutto; forse c’era bisogno di aspettare questa quarta prova per trovare la luce giusta in cui guardare le sfaccettature del gruppo, le dinamiche, forse c’era anche il bisogno di chiudere un capitolo lungo 10 anni salutando quello che è stato il compagno di viaggio fidato, una delle anime ritmiche di un sound distintivo: il bassista Carlos Dengler ha lasciato il gruppo, subito dopo aver terminato le registrazioni di “Interpol” (ma fonti vicine assicurano che l’idea era nell’aria già da molto tempo, ossia dalla pubblicazione di “Our Love To Admire”, nel 2007; nessun attrito, nessuna stanchezza, solo il desiderio di darci un taglio con i concerti e la promozione). E niente sarà più lo stesso, anche se a sostituire Carlos è arrivato David Pajo (Slint) e a riempire un vuoto ingombrante è stato chiamato Brandon Curtis (The Secret Machines) alle tastiere – sì, perché ci sono molti passaggi che chiamano in causa i tasti di un pianoforte, dall’ossessiva Try It On alla crepuscolare Summer Well, fino alle malattie infossate di Always Malaise. “Interpol” è un punto di passaggio, non certo di attracco, ma quale sia la direzione della corrente è ancora tutto da scoprire.

Innanzitutto l’attesa per questo nuovo lavoro era spasmodica e febbricitante, soprattutto dopo il controverso “Our Love To Admire”, l’album che ha diviso i fan spaccandoli tra coloro che sempre e comunque si ritrovano nel sound oscuro degli Interpol e nelle liriche criptiche di Paul Banks e coloro che, invece, lo identificavano come lo sbando verso una sperimentazione troppo commerciale, che andava ad intaccare l’estetica minimalista che li ha sempre contraddistinti da “Turn On The Bright Lights”, uno dei dischi più importanti della scorsa decade. Il male del Nuovo Millennio, il malessere di vivere, la difficoltà quasi impossibile delle relazioni tra esseri umani, come se i Joy Division avessero deciso di rinascere in giacca e cravatta sull’altra sponda dell’Oceano. Le voci si rincorrevano su cosa avrebbero inscenato gli Interpol questa volta, c’era chi diceva un ritorno alle sonorità del debutto, chi un proseguimento della linea pop tracciata dall’ultimo lavoro, ma certo nessuno si sarebbe aspettato una svolta così teatrale, così orchestrale. Muoiono i muri di chitarre che avevano sempre costituito il tratto distintivo della band, crollano le linee di basso che dettano il ritmo. Esce prepotente la ritmica di Sam Fogarino, delle percussioni, pretende sempre più spazio il piano, rallentano le liriche di Paul Banks e tutto per contribuire a creare un effetto cinematografico, concreto, tangibile; si può quasi toccare, il suono di “Interpol”. Ed è come se la matassa si annodasse fino a diventare soffocante, come se la piena del fiume si facesse sempre più impetuosa, e l’unica scelta possibile fosse quella di abbandonarsi; la tracklist di “Interpol” sembra studiata per abituare piano piano gli occhi al buio, lasciandoci scivolare sempre più nella disperata autocommiserazione fino al gran finale, The Undoing, epica tra recitato in spagnolo e fiati da Apocalisse.

Inutile provare a chiedere a Paul Banks una spiegazione su quanto da lui scritto. Invece è Daniel Kessler, il chitarrista della band, a raccontarci qualcosa su come gli Interpol siano arrivati ad essere finalmente più se stessi che mai.

Avete presentato questo disco definendolo come uno “sforzo collettivo”. Perché avete voluto sottolineare questa cosa?
“Ci sentiamo più un collettivo artistico che una band. Non siamo un’entità musicale in cui un cantante scrive i testi e le musiche e decide la linea anche per gli altri, non lo siamo mai stati; ognuno ha il suo diritto di parola e anche di veto, per cui arrivare ad un compromesso, e quindi a un risultato finale come una canzone, richiede un certo sforzo da parte nostra. Soprattutto perché qui abbiamo chiamato in causa un sound nuovo, un approccio orchestrale, un territorio inesplorato con nuove regole da stabilire di volta in volta”.

Quali sono i fondamentali di questo sound?
“C’è una sola chitarra in scena per la maggior parte delle volte, abbiamo cercato di creare le melodie e le armonie chiamando in causa registri differenti, come gli inserimenti di tastiere e la polifonia vocale”.

Verso quali direzioni pendono gli equilibri creativi messi in gioco per “Interpol”?
“Credo che tutti abbiamo dato un contributo importante a questo album; forse Sam è quello che ha fatto il lavoro più audace spingendo le percussioni verso direzioni quasi elettroniche, ma anche Paul ha portato il canto verso molteplici angolazioni, quasi fossero più voci ad interpretare le parole. Io sono quello che si preoccupa, di solito”.

Eri preoccupato per questo nuovo lavoro?
“Non spaventato, ma mi facevo domande: quanto riusciremo a realizzare, quante persone lo apprezzeranno, quanto ci sentiremo a posto con noi stessi una volta che il disco finito sarà nelle nostre mani”.

Lo siete?
“Assolutamente. Abbiamo perso il sonno molte notti per arrivare a questo. Avremmo potuto replicare un disco come ‘Antics’ e portarci a casa la nostra dose di plausi e gradimenti, sono certo che una soluzione del genere avrebbe venduto. Ma non saremmo stati noi. Gli Interpol, questi Interpol, si prendono dei rischi che vanno ben al di là delle logiche commerciali e delle formule già collaudate”.

A proposito di certezze: avete messo in conto la reazione dei fan a questa vostra direzione artistica differente?
“Sì. Compiacere i fan, e i nostri fan sono davvero splendidi, e devoti, fa parte dei motivi per cui continuiamo a fare musica, però sappiamo anche che ci saranno sempre delle fazioni, tifoserie, come con il calcio. Alcuni forse preferiranno altri dischi, ma ci auguriamo che comprendano la complessità del lavoro e lo sforzo che abbiamo fatto per arrivare a ‘Interpol’”.

C’è molta ambizione c’è dietro ad un sound costruito su diversi livelli come è il vostro?
“Parecchia. Ce l’abbiamo nel sangue, questo desiderio di fare cose grandiose che ci spingano oltre i nostri limiti, e credo che con questo album siamo riusciti a realizzare qualcosa di ambizioso, sì, ma anche di valido. Lo sforzo maggiore lo abbiamo concentrato non nella produzione ma nel riuscire a costruire delle atmosfere sonore che, ad ogni ascolto, si rivelino diverse dalla volta precedente”.

Avevate in mente una direzione orchestrale come questa, quando avete iniziato a scrivere le nuove canzoni?
“Sì, perché già con ‘Our Love To Admire’ avevamo provato delle soluzioni che ci sembravano interessanti e stimolanti. Arrivare alle atmosfere scure di questo disco è stata la naturale evoluzione della direzione che avevamo già intrapreso, che è quella di allontanarci dalle dinamiche di ‘Antics’”.

Avere dei side projects attivi ha inciso sullo spirito del gruppo?
“Sì, ci ha fatto cambiare. Ci ha fatto sedere intorno ad un tavolo a guardarci negli occhi per poi accorgerci che era tutto come prima. Cioè, diverso da prima, ci conosciamo dal 1997, però la fiducia e l’attrazione artistica tra noi è la stessa di quando abbiamo iniziato. Altrimenti non lo avremmo fatto”.

C’è un background comune che unisce tutte le canzoni presenti in lista?
“Abbiamo scritto le canzoni per 7 mesi lavorando su ogni dettaglio e questo è il nostro disco più compatto, c’è una linea continua che lega le singole canzoni anche se poi ognuna ha una sua personalità distinta”.

Il nero può essere una di queste linee?
“Sì e no, nel senso che dicendo nero sembra tutto più facile e semplice ma in realtà non trovo che questo disco sia deprimente. Affatto. Semmai cerca di stimolare delle reazioni, di farti sentire in una precisa maniera, come se fosse un film che stai guardando e ti cattura. L’intenzione non è quella di intristire le persone, ma di fare loro sentire che non sono sole nel sentirsi così. Siamo in tanti ad avere dei lati oscuri”.

Il video di Lights è stato affidato a Charlie White, un artista dalle idee molto forti con cui avevate già lavorato per il clip di Evil. Che tipo di storia volevate che raccontasse della canzone?
“Ci siamo fidati a occhi chiusi di lui. Come prima cosa abbiamo deciso di dare Lights in anteprima sul web, perché ci sembrava una delle canzoni più significative dell’album, mentre il singolo Barricade è più in scia con quanto eravamo. Desideravamo una visione artistica, un’estetica di spessore, e non abbiamo chiesto né suggerito niente. Il risultato, lo avete visto, è disturbante. Non voglio dire altro, perché per me si tratta di arte e l’arte abbraccia un discorso estetico che va al di là delle spiegazioni verbali”.

 

 

La scelta di intitolare il disco “Interpol” ha una motivazione particolare?
“Quando sei giovane è la cosa più immediata chiamare il tuo primo disco con il nome del tuo gruppo, farlo dopo più di 10 anni insieme assume tutto un altro valore. È una scelta, non una casualità. Cercavamo un titolo corto, ma più che altro cercavamo un titolo che ci rappresentasse perché sentivamo la necessità di attirare l’attenzione su di noi, dato che c’era stato un cambiamento”.

Quanto male ha fatto la dipartita di Carlos?
“Ne abbiamo parlato molto con lui, Carlos è un artista incredibile e certo la sua assenza si sta facendo sentire, ci manca qualcosa che faceva parte di noi. Però era una cosa che andava fatta, Carlos sentiva il bisogno di staccarsi dai meccanismi della band ma non dalla band. Anche le new entries di David e Brandon sono solo delle aggiunte live, ormai il cuore creativo degli Interpol è rimasto una cosa tra me, Paul e Sam”.

web: www.interpolnyc.com

Elisa Bellintani
(20 ottobre 2010)

 TUTTO SU INTERPOL

2010
Interpol

2007
Our Love To Admire

2004
Antics

2002
Turn On The Bright Lights
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