Leggi Ok Go e pensi ad un gruppo di 4 fuori di testa che hanno confezionato alcuni dei video più innovativi degli ultimi anni – su tutti il “balletto da cortile” di A Million Ways e la mitica coreografia sui tapis roulant di Here It Goes Again (ad oggi quasi 50 milioni di contatti su YouTube). Riduttivo. Dietro ad un senso estetico sopraffino – che traspare anche dall’abbigliamento da dandy contemporanei dei ragazzi e soprattutto del frontman, Damian Kulash – e ad una serie di idee di marketing vincenti si staglia un incondizionato affetto per la musica, intesa non come un prodotto appiattito per le radio bensì come compromesso intelligente tra pop e ricerca di sonorità convincenti e organiche. Il loro terzo album, “Of The Blue Colour Of The Sky”, è proprio questo. Con qualcosa in più. Tipo: un “certo” Prince che incombe con il suo spirito lungo tutte le 13 tracce, dispensando a piene mani incursioni di chitarre, versetti e falsetti ed un senso di erotismo soffuso nonostante il tema decisamente non convenzionale e visionario che fa da collante all’album, ovvero quella teoria di fine XIX secolo secondo cui la luce blu poteva curare ogni cosa (bibliografia essenziale per i più motivati: “The Influence Of The Blue Ray Of The Sunlight And Of The Blue Color Of The Sky” del gen. A.J. Pleasonton, 1876). Con Damian incominciamo proprio da qui.
“Scusami per la voce abbassata, ho passato ore a cantare con Rock Band”. Ovvio: un raffreddore sarebbe stata una scusa troppo banale.
L’idea che la luce blu possa essere la soluzione di tutti i mali è assai naif, una visione ottimistica della vita che stride con la constatazione che questi sono tempi decisamente difficili. Il blu, e la musica, sono come luoghi dove rifugiarsi?
“Anche io ho personalmente attraversato un periodo difficile e questo disco è per me come una preghiera, un tentativo di trovare la speranza perché le cose inizino ad andare meglio. È un esperimento vero e proprio, perché l’idea di partenza era quella di fare un disco pieno di gioia e felicità ma l’approccio che abbiamo adottato è stato differente, non scontato. Ed è vero che è naif questa teoria sul blu, l’ho pensato subito appena l’ho scoperta, però anche le nostre canzoni sono naif, in fondo. Per cui ci appartiene”.
In un’intervista tempo fa hai dichiarato: “Il 2° album è sempre duro perché hai avuto 20 anni per incidere il 1° e circa sei mesi per il 2°”. Questo è il terzo: sempre dura?
“Ci abbiamo messo un po’ di tempo, in effetti. Abbiamo passato più di 2 anni e mezzo in tour e ti garantisco che è una cosa che ti esaurisce; ho dovuto costringermi a ricordare come si faceva a scrivere una canzone, e non ne potevo più del suono degli Ok Go che stavamo portando in giro. Mi ero stufato di sentirlo e riproporlo continuamente. Ci voleva un cambiamento netto. Ci è servito un po’ di tempo per capire bene la direzione, per trovare il giusto equilibrio delle parti; abbiamo scritto una sessantina di canzoni e alla fine ne abbiamo tenute 13”.
Il sound appunto: questi tre album sono molto diversi tra loro. È un segnale di inquietudine?
“Sarà banale ma io direi più un’evoluzione: è particolare, unico, e questa volta guarda apertamente a quelle che sono state le nostre influenze; quando ho scoperto la musica ho pensato subito: ‘Voglio far parte di una band come i Pixies’. Volevo le chitarre. Volevo il rock. Credo di averlo trovato, con questo disco”.
Prince è sicuramente l’influenza che più si percepisce per “Of The Blue Colour Of The Sky”. Perché proprio lui?
“Da quando avevo 11 anni sono ossessionato con ‘Purple Rain’, è un album che non smetto mai di ascoltare. Ha tutto quel che occorre. Credo di essere arrivato ad un punto della mia carriera in cui sono convinto di saper scrivere una buona canzone, e per fare del guitar-rock come quello di Prince bisogna aver una cera sicurezza sui testi. Prendere Prince come riferimento ci ha aiutati ad uscire dal suono di ‘Oh No’, che per noi non aveva più nessuna magia”.
I testi sono inconsueti, come nella visionaria Before The Earth Was Round. Da dove ti viene tutta questa energia creativa?
“Dalla certezza che mai vorremmo assomigliare a qualcun altro. Certo, c’è Prince, gli MGMT, Electrix Six, ma alla fine ci siamo soprattutto noi. Vogliamo l’energia. Vogliamo essere difficili da etichettare. Vogliamo essere orgogliosi di noi e lo siamo. Quando scrivo sono estremamente critico, mi chiedo ogni volta: è buono abbastanza? Pretendo il massimo e faccio di tutto per ottenerlo”.
Impossibile non chiederti dei video degli Ok Go. Quanta ricerca c’è dietro, o quanta improvvisazione?
“Essere in una band non vuol dire fare solo musica musica musica, io lo intendo come far parte di un progetto più ampio che coinvolge anche le arti figurative ed un modo di essere. Per gli Ok Go essere una band significa creatività a 360°. L’industria della musica può essere molto, molto rigida e siamo fortunati ad avere la libertà di poterci esprimere come meglio ci pare, senza sottostare a canoni e regole; un’idea brillante come quella di Here We Go Again, che è piaciuta e ci ha fatto conoscere come band ‘attiva’, ci ha permesso di acquisire autonomia e decidere noi cosa fare e come farlo. Non capita a tutti”.
Con Shooting The Moon entrate a far parte del cast di musicisti all-star che ha partecipato alla colonna sonora di “New Moon”. Nessun imbarazzo?
“Assolutamente, per noi è stato un onore! Ci siamo fatti un po’ di tappeti rossi, niente male. ‘New Moon’ è così rock! È la cosa più rock che ci sia oggi”.
web: www.okgo.net
Elisa Bellintani
(02 marzo 2010)
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