Delphic. Ricordatevi bene questo nome, perché ne sentirete molto parlare nel corso dell’anno. Non lo diciamo solo noi e i blog di mezzo mondo, è la stessa BBC (una che non sbaglia un colpo quanto a tendenze) a inserirli nella sua longlist Sound Of 2010. “Acolyte” è il disco che contiene i singoli This Momentary, Counterpoint e Doubt, che già avrete senz’altro avuto modo di sentire. Parliamo con James Cook, voce dei Delphic, di quanto rumore si sta scatenando intorno a loro.
Siete una delle band con più hype intorno al momento. La cosa vi sta mettendo molto sotto pressione?
“Ad essere sincero no, non ci sentiamo sotto pressione. L’album era già finito quando i blog hanno incominciato ad interessarsi a noi con una certa insistenza, e anche quando la BBC ci ha inseriti nella sua lista. Al contrario non stiamo più nella pelle: non vediamo l’ora che il disco sia disponibile in maniera da vedere come la gente reagirà davvero”.
Riuscite ad immaginare perché tutti sembrano impazziti per voi?
“No, non saprei proprio estrapolare un motivo. L’unica cosa che noi abbiamo provato e ci siamo impegnati a fare è stata quella di creare della musica electrodance che piacesse a noi per primi, con una buona base di sintetizzatori e drums”.
So che avete una storia particolare da raccontare sul come vi siete formati.
“Matt (Cocksedge, chitarra), Richard (Boardman, polistrumentista) e Dan (Theman, batteria) suonavano già insieme in un’altra band, gli Snowfight In The City Centre, ma erano stanchi del tipo di musica che stavano portando in giro. Così sono entrato in gioco io, che li conosco comunque da anni, e abbiamo lavorato in una direzione completamente differente da quella dell’indie guitar rock che avevano”.
In un certo senso hai fatto la differenza.
“In un certo senso sì. Io mi occupo in prima persona dei testi, oltre a cantare”.
Ho letto che avete iniziato a fare musica perché annoiati da quello che sentivate proporre dagli altri. È vero?
“Verissimo. Ci siamo ritrovati tutti a pensare: queste cose sono noiosissime. Nessuno si distingueva per un suono o un attributo particolare, cambiavano i nomi ma non il tipo di musica, né le canzoni. Per cui invece che continuare a sentirci frustrati e scocciati ascoltando quella che secondo noi non era buona roba ci siamo messi in gioco in prima persona, proponendoci di fare noi la musica che avremmo voluto sentire”.
Avevate in mente questo tipo di suono fin dall’inizio?
“Non esattamente, ma quello che volevamo era essere unici”.
A proposito di unicità: se vi dico New Order cosa mi rispondete, ‘grazie tante’ o piuttosto ‘adesso basta’?
“E’ un paragone a cui so non riusciamo a sfuggire! Ti risponderei grazie tante, perché è senza dubbio un onore essere accostati ad una band come i New Order, però non credo suoniamo come loro. Li ricordiamo, è vero, ma abbiamo personalizzato ed elaborato quello che rappresentavano loro in qualcosa di più individuale”.
E se dico Bloc Party?
“Anche loro, certo. Sono uno dei nostri gruppi preferiti, e si sente. E abbiamo avuto il piacere di condividere delle date live”.
Siete di Manchester, e Manchester è stata una città molto importante per la scena dei DJ. Che aria si respira, oggi?
“Manchester è cambiata parecchio, però è una città che ha l’incredibile capacità di rinnovarsi in continuazione. Si respira un’elettricità davvero particolare, un’urgenza creativa diffusa”.
E che dite di Berlino, la città dove avete registrato “Acolyte”?
“E’ una città fantastica per vivere la notte, voglio dire, ci sono club, persone e DJ che non puoi trovare da nessuna altra parte del mondo. C’è la certezza di stare cambiando il mondo ogni notte, in una certa maniera. E poi Berlino è la città dove vive Ewan Pearson, a cui dobbiamo molto di ‘Acolyte’”.
Quale è stato il suo intervento sul vostro disco?
“Riusciva a togliere qualcosa e a calibrare le parti in una maniera che tutto poi sembrava scintillante; anche quando eravamo convinti di aver scritto qualcosa di perfetto lui ci metteva le mani e tutto suonava ancor più perfetto! E poi ci ha portato in giro con lui per locali e club, lo abbiamo visto all’opera ed è uno spettacolo incredibile vedere come riesce a catalizzare le persone fino al mattino”.
Una cosa che vi caratterizza molto è l’uso delle parole. Dal titolo dell’album (lett. ´chierichetto´, ndr) a quello di alcune tracce(Ephemera, This Momentary, Halcyon, Clarion Call) ci sono una serie di rimandi ad un universo di significante se non sofisticato quantomeno ricercato. C’è un preciso motivo dietro?
“Sì. A volte capita di incontrare una parola e innamorarsi del suo suono, o della sua grafia; al di là del significato, anche il significante ha un suo valore ed una sua estetica precisa, dei canoni e degli standard da rispettare. Certe parole hanno una bellezza incredibile, e usarle apre infinite possibilità in più alla musica”.
Anche scegliere il nome della band non è cosa da sottovalutare. Con Delphic cosa avevate in mente?
“Volevamo un nome che fosse facile da ricordare e che allo stesso tempo fosse sia evocativo che vuoto. Delphic richiama qualcosa di misterioso, inconoscibile, come l’oracolo, però è anche un nome che acquista significato con tutto l’immaginario che c’è dietro. Volevamo un nome che si potesse riempire con la nostra musica, che prendesse un ulteriore significato con i suoni”.
È per questo motivo che sul palco sembrate essere in secondo piano rispetto alla musica?
“Sì, vogliamo che la gente si ricordi delle canzoni e non di noi”.
Vestirsi di nero fa parte del ‘progetto’?
“Sì, è come se ci tirassimo indietro e lasciassimo alle persone nient’altro da guardare se non le forme della nostra musica. Non volevamo essere riconosciuti per un’uniforme particolare”.
“Acolyte” è un disco che suona molto organico e coerente. Quanto lavoro e ricerca ci sono dietro?
“Tantissimo. Ci sono anni di tentativi non sempre andati a buon fine, c’è molto studio e confronto. Ma volevamo a tutti i costi ottenere un ottimo risultato da subito, per cui lavorare duro sui suoni, le parole e le atmosfere era una cosa che abbiamo messo in conto da subito”.
So che vivete anche insieme nello stesso appartamento. Non è troppo? Voglio dire, suonare, provare, fare concerti e condividere anche lo spazio dell’abitare e del dormire?
“Infatti molto spesso litighiamo! Però poi andiamo a provare e così facciamo pace”.
Invece che fare l’amore fate la pace con le chitarre?
“Esattamente!”.
Com’è l´appartamento di una band?
“Contrariamente a quello che stai pensando è molto ordinato, ci teniamo a mantenere ordine e rigore e disciplina. Ci sfoghiamo in studio, ma in casa deve esserci un ambiente tranquillizzante, non il caos. Passiamo molto tempo in cucina, non solo a mangiare e bere, abbiamo la fortuna di aver molti argomenti di conversazione a tenerci impegnati. Parliamo molto, non solo di musica e concerti però”.
Il 2010 è appena incominciato. Buoni propositi?
“Smettere di vivere insieme! A parte gli scherzi, dobbiamo concentrarci molto sull’aspetto live delle nostre canzoni e imparare a divertirci di più mentre suoniamo, essere un po’ meno tesi e rigidi. E continuare a scrivere, per avere materiale già pronto quando i blog riprenderanno ad interessarsi a noi la prossima volta”.
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