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 MILOW
MILOW IL RAGAZZO CON LA CHITARRA
IL RAGAZZO CON LA CHITARRA

Siamo a fine 2009 e ancora, da sei mesi ininterrottamente, a dire la verità, le radio e le emittenti musicali hanno in heavy rotation una canzone apparentemente molto dolce ma in realtà molto oscura: si tratta di Ayo Technology, resa acustica di Milow della versione hi-tech sexy di 50 Cent e Justin Timberlake del 2007. Una canzone che parla di cybersesso, incontri occasionali ed erotismo in solitaria accompagnato ad un forte desiderio di realtà, un forte contrasto con la voce intensa e la chitarra melodica portate in scena da Milow che mette in risalto l’immensa solitudine e disperazione di una passione mai consumata. Una cover “benedetta” anche da Kanye West, che nel suo blog la segnalò in tempi non ancora sospetti, una cover balzata alla numero uno in quasi tutta Europa, quasi 600.000 singoli venduti in tutto il mondo, una cover che però vuole soprattutto aprire la pista al terzo album di Jonathan Vandenbroeck, “Milow”, appunto.

Voglio farti i miei complimenti perché se mi aspettavo il suono i testi sono stati invece una bella sorpresa: diretti, semplici e con tante storie a fare da veicolo per racconti universali.
“Ti ringrazio. A volte mi capita di accorgermi che alcuni artisti europei usano l’inglese in maniera scolastica, oppure è come se cercassero le parole sul dizionario; io ho vissuto negli Stati Uniti per un certo periodo e ho la fortuna di saper usare un inglese molto diretto e reale, come fa anche Bruce Springsteen. In questo disco ho voluto assumere il ruolo di cantastorie e dare a certe persone la facoltà di raccontare come si sentono, immaginare le loro vite e lasciarle parlare. Voglio che le mie storie vengano ascoltate e capite, credo nella vecchia scuola del cantautorato anni ’60 e ’70, quella che metteva in scena piccoli mondi per tutti”.

In questi piccoli mondi si nota però un grande assente: l’amore. Come mai hai voluto evitare di cantar d’amore?
“Questa è una cosa che fanno già in tanti e voglio dire, c’è chi lo sa fare bene e chi lo sa fare meno bene. Volevo differenziarmi. Volevo cantare la vita in un senso più ampio. La parola “love” si trova una sola volta in tutto il disco ed è un verbo: “you will love it”. Scrivere una bella canzone d’amore è un’impresa davvero difficile, una canzone come One degli U2; quando sarò in grado di scrivere una canzone d’amore meravigliosa come quella allora la includerò nel mio lavoro”.

Ci sono canzoni intime e storie in forma canzone. Il ruolo di cantastorie ti piace da indossare?
“Mi piace molto questo ruolo, sì. E ho anche notato che far parlare un altro personaggio al posto mio mi permette di essere perfino più onesto, di esplorare sentimenti che altrimenti mi vergognerei ad esporre. La canzone The Priest, ad esempio, è sì una storia su di un prete che in letto di morte apre il suo cuore a Dio e racconta di come ha perso negli anni la Fede, ma è anche una canzone su come ci si ritrovi a volte a dover fare i conti con la consapevolezza di aver fatto delle scelte sbagliate e pentirsene, e allo stesso modo potrebbe essere vista come una canzone sul rapporto complicato tra un padre ed un figlio. Mi piace quindi lavorare su diversi livelli e dare alla gente diversi spunti da scoprire”.

I personaggi di cui racconti sono inventati?
“Il prete cui accennavo prima sì, è inventato, è un medium che ho usato per raccontare una storia. Stephanie invece (la protagonista dell’omonima canzone, nda) esisteva. Era una ragazza di 18 anni ed è stata uccisa con una mazza da baseball nell’estate del 2004 nella sua casa mentre il padre era via; è riuscita a mandare al padre un sms in cui scriveva che era stata la matrigna, e questa ragazza era amica di mia sorella; i media dopo poche settimane si dimenticano di te, ma chi ti conosce davvero no: per questo ho scritto la canzone, per raccontare la voglia di crescere e diventare adulta di Stephanie anche se non potrà mai più farlo”.

Stephanie è particolare anche perché accosti una storia tragica ad una melodia leggera e scanzonata. Qual è il motivo di questo contrasto?
“Sto ancora cercando il perfetto equilibrio tra parole, melodia e forma pop della canzone, provo diverse combinazioni e ogni volta ottengo risultati diversi. In questo particolare caso volevo dedicare a Stephanie una canzone che la ricordasse com’era, ovvero una ragazza giovane, solare e curiosa della vita come ogni ragazza di quell’età deve essere”.

Anche quello che racconti in Herald Of Free Enterprise è vero?
“Se fossi americano probabilmente avrei scritto una canzone sull’11 Settembre, ma il nostro disastro nazionale è stato quando la nave Herald Of Free Enterprise è affondata, portando via le vite di 192 persone; facendo ricerche su internet ho scoperto che questa nave aveva altre 7 sorelle e tutte erano in qualche maniera maledette, e ho voluto scrivere la canzone dal punto di vista della nave”.

Il successo internazionale lo stai avendo grazie ad una cover; che effetto ti fa, essendo tu un cantautore?
“Sei mesi fa avevo paura che con la cover sarei incappato nell’effetto meteora, so che la gente non compra il tuo album solo perché le piace una canzone; ma la cosa che mi ha fatto piacere è stato vedere che il secondo singolo, You Don’t Know, è stato un successo ancora più grande di Ayo Technology in Belgio. Ci sono tante persone che hanno comprato il mio disco, tante che vengono a vedermi in concerto, posso dirmi soddisfatto”.

Se potessi tornare indietro lo rifaresti, presentarti con una cover?
“In Belgio in realtà era il quarto singolo, essendo ‘Milow’ un album che è una riedizione dei miei due precedenti, per cui io la vedo da una prospettiva diversa rispetto a voi, che con Ayo Technology mi avete conosciuto. Ci sono tanti cantanti che ci provano in ogni maniera e non ce la fanno a guadagnarsi la ribalta, Ayo Technology è una canzone che tanti aspettano una vita intera e magari non arriva mai. Sono stato fortunato, lo so e quindi sì, lo rifarei”.

È allora più una scelta di marketing internazionale quella di usare Ayo Technology per lanciarti?
“Nemmeno, alla fine è stato tutto molto lento e faticoso per me, anche se immagino pensiate per me il successo sia arrivato all’improvviso. Il mio primo disco è del 2005 e me lo sono pagato da solo fino all’ultimo centesimo, perché volevo cantare e farlo a modo mio; ancora oggi ho un ottimo rapporto costruttivo con la mia etichetta, che mi lascia libertà decisionale su ogni cosa. Qualunque cosa faccio oggi è perché io lo voglio e io lo desidero, non perché c’è un mercato più grande a decidere cosa fare di me”.

In Canada canti di questo ragazzo che vorrebbe andare in Canada a conoscere Neil Young ma poi non parte. Quanto c’è di tuo, stavolta?
“Questa è una canzone in cui prendo in giro con affetto tutti quei cantautori che scrivono nelle loro case canzoni che pensano bellissime e che sognano romanticamente di fare della musica un mestiere e avere successo ma non riescono a trovare il coraggio di lanciarsi e prendersi dei rischi, per cui ogni volta dicono: magari l’anno prossimo lo farò. Ci vuole molta dedizione e molto coraggio per fare il cantante. Io credo di averlo avuto e di essermi messo in gioco sempre”.

E se le cose non fossero andare come sono andate?
“Non ho mai avuto un piano B. Ci sono tante persone che suonano, poi finiscono la scuola, si trovano un lavoro e la musica diventa un hobby. Per me non è mai stato così, la musica è sempre stato lo scopo di tutto e quello che più desideravo fare, non un impegno dei sabati e delle domeniche. Ecco perché è così gratificante per me essere qui, ora”.

Che cosa ascolta un musicista che racconta storie fantastiche come le tue?
“Mi piacciono le armonie di Fleetwood Mac e Fleet Foxes, sto ascoltando molto il disco dei Mumford & Sons, Brett Dennen … Mi piace cercare sempre nuova musica, certo, Bruce Springsteen è un mostro ma la radio ci fa ascoltare cose sempre nuove e questo è un bene. È stimolante”.

Senti una certa responsabilità nel rappresentare il tuo Paese, il Belgio, o vivi questo momento come una cosa solo tua?
“Sì e no. La musica è una forma di espressione individuale, non nazionale, tanto più che se una canzone è bella piace a prescindere da dove è stata fatta. Inoltre in Belgio nessuno ha mai creduto in me, dalla gente alle discografiche, e ora che ho successo mi guardano tutti con sospetto. È una cosa strana, forse è invidia per il momento che sto vivendo. Ma nonostante questo sono orgoglioso di essere belga e di far conoscere il mio Paese all’estero con la mia musica, anche se quanto mi sta accadendo è una cosa essenzialmente mia”.

WEB: www.milow.com

Elisa Bellintani
26 dicembre 2009

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