Una vera e propria pandemia musicale, che da Bassano del Grappa si è diffusa fino a Los Angeles, e poi alle charts di tutto il mondo: abbiamo parlato con il dj e produttore Sir Bob Cornelius Rifo, l’uomo che si nasconde dietro la maschera di Bloody Beetroots.
Per il progetto Bloody Beetroots gli ultimi due anni sono stati un periodo estremamente intenso, in cui hai girato tutto il mondo. Ora finalmente un LP, “Romborama”: come è nata l�idea?
"E’ un disco che ho cominciato a pensare nel novembre 2008: volevo fare un�opera anarcomusicale supportata da una parte visuale, e l�idea si è concretizzata quando ho incontrato Tanino Liberatore a Parigi e gli ho chiesto se voleva completare con le sue immagini questa mia opera. A dicembre abbiamo iniziato a lavorarci, e poi siamo arrivati a pubblicarlo in tutto il mondo".
Il fumetto, a partire dalle maschera che indossi, è un riferimento importante dell’immaginario che ruota attorno a Bloody Beetroots. Artwork a parte, quanto c�è nel disco di Liberatore e di quel mondo?
"Tanino è la persona che ha influito di più sulla mia visione della vita. Io sono cresciuto con quel mondo, nell�ambiente squat: quando avevo nove anni io leggevo già Frigidaire e RanXerox, contenuti fortissimi che possono cambiarti veramente il modo di pensare. In più vivevo con mio zio, un batterista rockabilly, e la casa era sempre invasa da musica psychobilly, da punk e hardcore. è diventato un marchio di fabbrica, non ho mai lasciato quel mondo, cerco sempre di portarmelo dietro e di non dimenticarlo mai. E� una specie di background degradato, rotto, sporco, scomodo anche, ma è la matrice e la radice della mia vita".
Ascoltando l’album è subito chiaro che dentro ci sono molte cose diverse tra loro: è un cambiamento, un’evoluzione del tuo sound, o sono solamente delle deviazioni?
"A volte faccio cose che sono agli antipodi, ma questo perché voglio raccontare delle storie e delle emozioni, degli umori: in �Romborama� non mi sono soffermato in un solo suono ma ho raccontato quello che provavo giorno per giorno, ho voluto raccogliere tre anni di lavoro in giro per il mondo, tre anni di pensieri fatti. è anche un tentativo di aprire il modo in cui si ascolta la musica elettronica: in questo album ho voluto dare qualcosa in più, esprimere anche storia e cultura".
“Romborama” contiene molte collaborazioni, fra cui l’unico italiano è Marracash in Come la. Come mai fra tutti gli artisti italiani hai scelto lui?
"Ho scelto Marracash perché ha una storia simile alla mia, è sempre stato nell�underground e si è posto degli obbiettivi precisi da perseguire: è andato a prendersi quello che voleva, nel bene o nel male. Stavo pensando pubblicare il disco in Italia e c�era già questo pezzo hip hop con i Cool Kids, Awesome: così mi è balenata l�idea di fare una versione in italiano, anche viste le difficoltà che ha l�Italia ad aprirsi a questo tipo di musica. Credo che Come la abbia aperto Bloody Beetroots ad un pubblico diverso: non è un�operazione sbagliata, anche se qualcuno la considera tale, perché se vuoi far funzionare le cose qui in Italia devi trovare l�anello giusto, il punto in cui inserirti nei network tradizionali per utilizzarli a tuo piacimento ed arrivare così alla massa".
Bloody Beetroots su disco e Bloody Beetroots live sono due cose diverse, anche perché nel dj set sei accompagnato da Tommy Tea. Cosa cambia in questo passaggio?
"Su disco hai una tua dimensione d�ascolto che non è la stessa del live, non devo necessariamente sempre pestare: dal vivo invece ho una platea che vuole ballare, quindi devo fare delle scelte diverse. Dal vivo c’è un tipo di dinamica che porta la gente a ballare e a non fermarsi mai, mentre nel disco ti puoi sedere, ti puoi fermare ad ascoltare: non è un disco dance, anche se ha dei momenti dance. In generale cerco di mantenere quell�approccio punk che domina il disco, ma la scelta dei brani nel dj set è tutt�altra: si va dall�elettronica alla techno, dalla house al punk hardcore. Presto Bloody Beetroots dal vivo diventerà un trio, un dj set con degli elementi suonati dal vivo”.
Discograficamente sei partito dagli Stati Uniti, e solo arrivando dall’estero hai potuto pubblicare i tuoi lavori in Italia. Come sei arrivato a Dim Mak Records e a Steve Aoki?
"In realtà mi ha trovato lui. Ho iniziato a fare un po� di remix, perché al tempo avevo un punk band che necessitava di essere venduta con un DJ set, e così è nato Bloody Beetroots: ho fatto un po� di produzioni che sono finite nelle charts dei migliori DJ del mondo, così ho deciso di proseguire per quella strada. A un certo punto si fa sentire Steve Aoki che mi propone di lavorare con la sua etichetta, perché stava cercando di aprirsi al panorama electro. Sono partito per Los Angeles, abbiamo iniziato a lavorare assieme e ora siamo come fratelli... se non ci sentiamo quattro volte al giorno diventa un casino!".
Non è raro, soprattutto nell�ambiente dell�elettronica, che artisti italiani vengano messi sotto contratto da etichette estere: secondo te come mai succede questo?
"Succede perché qui non ci sono le basi culturali per accettare o supportare fenomeni underground che possano sfociare in fenomeni popolari. Anche e soprattutto perché la differenza tra underground e mainstream in Italia non la sappiamo intendere: c�è un modo distorto di vedere la musica per cui, se vieni dall’underground, appena metti un piede fuori da un certo numero di utenza sei sputtanabile. Per contro le major, che sono le uniche che possono funzionare e hanno le strutture per funzionare, ti supportano solo quando hai già un nome all�estero e hai i numeri dalla tua parte. E le indipendenti, che dovrebbero aiutare l’underground ad emergere, praticamente non ci sono più”.
Quindi stai dicendo che se hai delle idee innovative in Italia non ce la fai.
"Esattamente, ma questo è perché non abbiamo contenuti e quando ci sono non sappiamo dove andarli a prendere. Siamo qui fermi ad aspettare, a vedere se succede qualcosa, e così non succede mai nulla".
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