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 BRUCE SPRINGSTEEN
BRUCE SPRINGSTEEN BRUCE SPRINGSTEEN - AMERICAN DREAM
BRUCE SPRINGSTEEN - AMERICAN DREAM
Anni 60 nel New Jersey, anni di speranza e di disillusione, anni persi nei drive in e a correre dietro alle ragazze. A costruirsi una carriera, un futuro  mentre fuori infuria il Vietnam, mentre da qualche parte sta per esplodere l’Estate dell’Amore, anni di beatlemania e di british invasion. Anni di sogno americano spesso deluso. Bruce Springsteen si compra una macchina e con la classica combriccola di amici comincia a sgommare, a dormire in spiaggia, a gironzolare per tutta la notte. Poi magari arrivano le solite forze dell’ordine a portarti dentro, a chiamare i tuoi genitori. Ma vuoi mettere, eroe per una notte, solo una, poi fra una settimana ci riproviamo. A fantasticare.
 

Bruce sa suonare la batteria, ma non ha i soldi per acquistarne una. E allora propende per la più economica chitarra. E scopre se stesso. Si guarda allo specchio e decide che non è tutto da buttare. Lui non è da buttare. Un cugino gli insegna i primi accordi, i genitori si spaventano e forse se la prendono anche un po’ con un figlio intento a smarrire la via maestra. Ma Bruce ha deciso che deve correre. In fretta. Avidamente si abbevera alle fonti musicali che gli si sembrano più adatte alla sua indole ribelle con una causa: il rock’n’roll di Elvis, di Chuck Berry, Roy Orbison, le follie produttive di Phil Spector, gli immancabili baronetti, le pietre rotolanti, Burdon e i suoi Animals, e poi il rhythm  and blues e tutta la Motown. Musica da sballo, musica per danzare, per scatenarsi, per liberarsi.
 
 Niente folk, please, niente Bob Dylan, il menestrello che sta stregando l’America. C’è bisogno di altro e Bruce ne ha avuto abbastanza di Freehold, della topaia che ha imparato a conoscere come la sua casa, di un padre annoiato che passa le giornate a lavorare e le serate di fronte alla televisione, non mancando mai di far pesare la sua rude autorità. E parte. Peccato che all’inizio lo scambino proprio per un emulo di Dylan. Un po’ è anche colpa sua, visto che si è presentato ai primi provini in veste acustica e dimessa. L’audizione avviene tra l’altro per la Columbia, la casa discografica che regge le sorti dell’autore di “Blonde on Blonde”.
 
Convince tutti e si porta a casa un contratto da 65mila dollari, un impegno per incidere dieci album e un manager, Mike Appel. Passato dal garage al rock, Springsteen decide di seguire le orme di Woodie Guthrie, di frasi cantore dei problemi delle fasce sociali più deboli. Comincia a prendere le sembianze del working class hero. Incide “Greetings from Asbury Park”, omaggio alla cittadina della East Coast dove si era trasferito da ragazzo. Lavoro realizzato velocemente, acerbo, poco applaudito. Ma dietro l’acustica di Bruce c’è già una band, i prodromi del nuovo muro del suono, l’origine della E-Street Band. Che si palesa dieci mesi dopo con il secondo capitolo, “The Wild, The Innocent & The E-Street Shuffle”, dove il folk primigenio viene investito da cellule di soul (il sax di Clerence Clemons), jazz (i tasti d’avorio di David Sancious), puro rock (la chitarra di Little Steven). E dentro c’è pure il primo classico, quella “Rosalita”, epitome della realtà suburbana accolta e raccontata lungo tutto l’arco del 33 giri. Ma niente, il popolo non abbocca, i dischi non si vendono, la casa discografica pensa di sbarazzarsi del nuovo cantautore. Tentenna. Prende tempo.
 
Anche perché John Landau, direttore di Rolling Stone una sera rimane di sasso nel vedere il Nostro esibirsi su un palco del Massachussets. E lo scrive pure: “Ho visto il futuro del rock, il suo nome è Bruce Springsteen”. Urge restyling strutturale, bisogna farlo esplodere quel rock. Bisogna farlo correre. “Born To Run”, è il 1975, inizia un’epopea, l’eroe da immaginario si fa carne e fuoco e infiamma i palchi. Finisce nella stessa settimana sulla copertina del Newsweek e del Time. Si fa apoteosi. Scorrono nel nuovo jukebox “Thunder Road”, Jungleland, “Night”, l’auto e la strada come chimere, come sogni da realizzare per fuggire e trovare nuove soluzioni. Poesia semplice, rude, umile, passionale. E’ il boom. Peccato che Appel se la prenda a male e lo trascini in una bega legale infinita. Che però finisce: Landau è il nuovo manager-consigliere-braccio destro-amico sodale. E’ il 1978, l’anno di “Darkness On The Edge Of Town”, dove ‘aria spumeggiante del precedente lavoro si fa più rarefatta,  e le strutture che la sostengono meno barocche per non dire scarne. “Badlands”, “Racing In The Streets”, “Prove It All Night”, “Factory”, in un alternarsi di gioia, disperazione, realismo, depressione, approdo verso un luogo misterioso dove realizzare i propri sogni. E Bruce è sempre più consapevole, si lega al movimento “No Nukes”, un giro di concerti contro l’affermarsi sempre più spinto del nucleare.
 
Ed è già nuovo decennio, tempo di “The River”, imponente doppio, classico disco enciclopedico che riunisce tutti i propri fantasmi, che passa dal pop di “Hungry Heart” alla desolazione di “Point Blank”. Nessuna sorpresa sonora, piuttosto una conferma dello status raggiunto, mentre si cristallizza definitivamente l’immagine del suo gruppo, una macchina inarrestabile che sul palco miete vittime ogni sera (la notte di capodanno del 1981 si sforeranno le 4 ore di concerto in quel di New York).
 
Dalla solitudine di Nebraska alle moltitudini di "Born in The Usa"
 
E Bruce pensa bene di fuggire dai clamori. Si ritira in casa da solo, con quattro piste, incide una manciata di brani, forse vorrebbe completarli. Li pubblica così, scarni, cupi, come il suo animo alle prese con un mondo che intorno è mutato, si è fatto reazionario, dietro le direttive di cavalieri cinici come il nuovo presidente dei suoi Stati Uniti, Ronald Reagan. Nebraska è gelo lo-fi cullato da un’acustica e dal suono dell’armonica. Disperazione, disagio, povertà, morte, “Johnny 99”, “Atlantic City”, “Used Cars”. Niente tour, Little Steve molla.
 
Quando Bruce torna alla luce lo fa con un’imponenza che non si vedeva dai tempi di “Born To Run”. “Born In The Usa”, e diventa il Boss, il dio dello stardom, muscoloso, entusiasta, carico a mille. E’ il suo disco più accessibile che capita a fagiolo nell’era Mtv. Facile scorgerci una strategia di marketing che prima era parsa solo volontà e passione. Poche chiacchiere. Dieci, venti, trenta milioni di persone se lo portano a casa. Svariate migliaia accorrono vederlo sui palchi di tutto il mondo durante il suo tour più ampio e strutturato. Un eroe per tutti, anche per Reagan che lo usa per la sua campagna di rielezione.
 
Un ciclo si è chiuso e viene celebrato da un mastodontico quintuplo live. Bruce intanto e su tutte le copertine mentre aderisce al clichè della rockstar ricca che si accompagna alla modella bellissima. E’ Julianne Philips. La sposa. Quasi un passaggio obbligato per quegli anni.
Non dura e la crisi susseguente viene illustrata nel 1987 da “Tunnel Of Love”, intimo, malinconico, sommesso. Successo. Si separa e si lega alla corista del suo gruppo, Patti Scialfa. Con lei costruisce una nuova famiglia e si separa dalla sua. Fine della E-Street Band. Scoramento generale. All’alba dei 90 se ne esce con due album, “Lucky Town” e “Human Touch” dove la poetica non muta ma i gusti del pubblico si. Non è più il Boss di un tempo. Vince un Oscar per il brano portante del film “Philadelphia”, pubblica live unplugged e greatest hits fino a quando non si riappropria delle proprie radici folk, le impreziosisce con spezie country e dà alle stampe “The Ghost Of Tom Joad”, nuovi manifesti di povertà e miseria. Il ritorno all’umiltà, anche strutturale, come testimonia il tour a seguire. Ma la gente anela il ritorno del mito, della macchina da guerra, della E-Street Band. Accade a NY e il tutto viene celebrato da un album omonimo.
 
Entusiasmo alle stelle. Ma cadono le torri e Bruce non può tirarsi indietro, come dimostra l’emotivo “The Rising”, ritorno al rock più classico, per molti solo esercizio retorico. Riparte la macchina inarrestabile, solo con qualche ruga in più. Canta dichiaratamente contro Bush che però viene rieletto. E il ritrovato Boss fa di nuovo un passo inaspettato con “Devil & Dust”, è il 2005 ed è ancora tempo di folk e country. Così accade anche con la rilettura di traditional raccolte nelle “Seeger Session”, spontaneità al di fuori di ogni trend. Storie di ieri, oggi è di nuovo tempo di E-Street Band.
 
 
Dieci canzoni per avvicinarsi al Boss
 
Rosalita
 
Thunder Road
 
Born To Run
 
Because The Night
 
Prove It  All Night
 
Hungry Heart
 
The River
 
Johnny 99
 
I’m On Fire
 
Streets Of Philadelphia
 
 
Davide Sechi
 
 TUTTO SU BRUCE SPRINGSTEEN

2007
Magic

2005
Devils And Dust

2002
The Rising

2001
Live in New York City

1995
The Ghost of Tom Joad
1993 Lucky Town Live
1992 Lucky Town
1992 Human
1987 Tunnel of Love
1984 Born in the U.S.A
1982 Nebraska
1980 The River
1978 Darkness on the Edge of Town
1975 Born to Run
1973 The Wild, the Innocent & the E Street Shuffle
1973 Greetings From Asbury Park, N.J.
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