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 BROKEN SOCIAL SCENE
BROKEN SOCIAL SCENE BROKEN SOCIAL SCENE ... THE IMPORTANCE OF BEING INDIE
BROKEN SOCIAL SCENE ... THE IMPORTANCE OF BEING INDIE
I Broken Social Scene, collettivo canadese fondato nel ’99 da Brendan Canning e Kevin Drew ed attorno al quale orbitano le menti migliori della scena rock indipendente di Toronto (dal carismatico songwriter Jason Collet ad Andrew Whiteman degli “Apostole Of Hustle” fino a Leslie Feist), approdano finalmente al terzo album in studio. Un compito certamente non facile quando si deve sopportare il peso di un album di culto (“You Forgot In It People” del 2002), l’attesa spasmodica da parte della critica e di un numero sempre crescente di appassionati e, soprattutto, gli inevitabili problemi che si verificano quando in ballo c’è un numero così alto di forti individualità.
Ne parliamo con Brendan Canning.
 
Ho letto che quest’album sarà il primo di una serie di tre lavori che intendete far uscire nel giro di poco tempo, si parla di un anno. È così?
 
Sì, in un certo senso. C’è un altro album in vista, che abbiamo cominciato a registrare prima di quest’ultimo, e poi ci sarà un disco a nome del nostro produttore, David Newfeld, al quale parteciperemo tutti. Tutto ciò non può certo essere visto come una vera e propria trilogia, ma… sì, in fondo siamo sempre noi.
 
Quando avete iniziato a lavorare su quest’ultimo album?
 
Nel 2003. Però sai, con tutti i progetti paralleli al nostro gruppo, con l’infinita serie di date negli States ed in Europa e con la solità difficoltà a tenere insieme nello stesso posto un numero così grande di persone, siamo arrivati alla pubblicazione a fine 2005.
 
Visti questi tempi lunghi riesci a guardare a questo disco come ad un’entità ben definita, ad un’ opera omogenea con un’idea precisa dietro oppure (cosa che tra l’altro sta diventando una specie di clichè quando si parla di voi) la vedi come una raccolta di canzoni, una specie di compilation?
 
Per quello che ci riguarda tutti gli album dei BSS, persino la raccolta di inediti e rarità “Bee Hives”, sono concepiti come un corpo unico con una propria identità ben definita. Se alcuni critici parlano di compilation è perché non sono più abituati a sentire tanta varietà in un unico disco. Ma questo è un problema loro, noi abbiamo sempre lavorato in questo modo.
 
Quanto è importante l’improvvisazione nei vostri dischi?
 
Moltissimo. Parte tutto da lì. Il processo è molto simile alla realizzazione di un quadro. All’inizio butti giù tutto quello che ti viene in mente, fai molti schizzi. Poi in un secondo momento, mischiando i diversi spunti e smussando qua e là e prende corpo l’idea finale, la struttura definitiva del quadro. Tu moltiplica questa cosa per tutti i membri del nostro collettivo e capirai quanto sia stimolante ma anche tremendamente difficile far convivere idee e personalità diverse, chiedere a tutti di mettere il proprio ego da parte. È un processo in cui la libertà con la quale intendiamo muoverci deve ogni volta scendere a compromessi con “la libertà” degli altri membri. In tutto ciò un ruolo importantissimo è rivestito dal nostro produttore Newfeld che oramai ha imparato a muoversi e spesso a mediare tra tutti gli input che contemporaneamente vengono fuori nella scrittura dei brani.
 
E quando è l’ego a vincere? Come la mettiamo? Vi è mai capitato ad esempio di mettere da parte delle canzoni perché i dissidi a proposito si sono rivelati insanabili?
 
Certamente. Ad esempio sull’Ep di sette canzoni “To Be You And Me” che ci sarà come bonus nell’edizione limitata del nostro album sono andate a finire un paio di tracce su cui ci sono state molte tensioni che alla fine non si sono risolte. Per questo motivo non ci è sembrato giusto includerle nell’album.
 
Mentre lavoravate a quest’ultimo disco avete fatto i conti con la pressione, l’aspettativa che si è creata nei vostri confronti dopo l’enorme successo di “You Forgot In It People”? Magari solo a livello inconscio…
 
Noi siamo prima di tutto siamo appassionati di musica, quindi è impossibile ignorare questo tipo di meccanismi. Quando ami una band sei ansioso per l’uscita di un album nuovo e naturalmente sappiamo bene che ci sono delle persone che nutrono questo tipo di aspettative nei nostri confronti. Quindi non parlerei proprio di livello inconscio, anzi tutt’altro! Ciò nonostante non riusciamo proprio a metterci a tavolino e dire “Ok, vediamo di fare qualcosa che non scontenti i nostri fan”. È assurdo. Così com’è paradossale che, nonostante tutta questa pressione, in questo caso ci sono state molte meno discussioni rispetto a quando registrammo “You Forgot In It People”.
 
Gran parte del successo che avete avuto nei circuiti indipendenti di tutto il mondo è dovuto ad internet ed al file-sharing, un fenomeno che invece in altri settori dell’industria si sta tentando in tutti i modi di combattere. C’è una morale in questa storia?
 
Internet in questo momento storico è il più grande veicolo promozionale che possa esistere. Solo che il tutto accade in nome della musica, dell’arte, e non in nome dei soldi. Almeno non in modo così immediato. Noi dobbiamo moltissimo ad internet, abbiamo fondato su di esso la nostra carriera, se non fosse per il file-sharing forse in questo momento non sarei qui a parlare con te. Ci vorrebbe più lungimiranza ed un po’ di miopia in meno e da parte di tutti per capire il potenziale immenso della musica on line, anche quella scaricata dai peer-to-peer.
 
In questi ultimi anni avete suonato in molti paesi. Facciamo un gioco: basandoti su questa esperienza riesci a descrivermi l’ascoltatore medio di musica indie, a farne un ritratto?
 
(Ride) Ieri in effetti sono stato intervistato da due ragazzi norvegesi che sembravano la personificazione di tutti i clichè sugli ascoltatori di indie. Sui venticinque, con l’aria da eterni ragazzini ma allo stesso tempo con un nonsochè di cinico, leggermente ricurvi, spillette sulla giacca, un tono di voce molto pacato… ah, e naturalmente viaggiavano in bicicletta!
A parte gli scherzi negli ultimi due anni ho incontrato persone di tutti i tipi ai nostri concerti, certo nella maggior parte dei casi erano persone molto profonde, interessate a temi come arte, politica e così via, ma sinceramente non mi va di generalizzare.
 
Ti sei fatto un’idea del perché negli ultimi anni il Canada sembri essere diventato una specie di eldorado del rock? Dove eravate nascosti tutti prima del 2000?
 
Essere canadese nella percezione comune ha sempre significato essere un underdog, un perdente. Poi però da qualche anno a questa parte si sono create delle comunità di musicisti che, confrontandosi l’uno con gli altri ed acquisendo così una maggiore consapevolezza delle proprie capacità, hanno cominciato a farsi avanti. Il vicino statunitense è sempre stato un termine di paragone che un po’ spaventava, metteva soggezione, anche in campo artistico, ma una volta che i primi riscontri sono arrivati anche da lì è diventato tutto più facile. È aumentata la fiducia nelle proprie possibilità e poi tutto è partito come una specie di reazione a catena.
 
Antonio Casillo
 
27 settembre 2005
 
 
 TUTTO SU BROKEN SOCIAL SCENE

2005
Broken Social Scene

2004
Beehives

2003
Cause Time

2003
Stars & sons

2002
You forgot in it people
2001 Feel good lost
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