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TSAR GOD SAVE THE ... TSAR!
GOD SAVE THE ... TSAR!
Gli Tsar sono quattro facce (eyeliner incluso) da schiaffi di Los Angeles che sbarcano in Italia con il loro secondo lavoro “Band-Girls-Money”. Un disco nato dopo un calvario durato cinque anni a causa di conflitti con la loro precedente etichetta.
Praticamente un altro esordio: line-up cambiata per metà, un singolo irresistibile ed un rock imbastardito che mischia in modo spudorato e intelligente echi del glam della città degli angeli che fu (Poison e Guns N’ Roses) ad un piglio garage più in sintonia con i gusti dei kids del 2000.
Ne parliamo con Jeff Whalen, leader della band.
 
Visto che in Italia siete ancora praticamente sconosciuti mi tocca cominciare con la solita noiosa domanda sul vostro nome: come mai “Tsar”?
 
Gli Tsar erano i governanti dispotici che c’erano in Russia prima della rivoluzione, hai presente?
 
Ehm… sì, più o meno.
 
Poi mi piaceva come parola, è l’anagramma di “Star”. Quando formi una band, la scelta del nome è sempre la cosa più noiosa e difficile. In principio ci chiamavamo in modo diverso, come “Drug Boys”, “Drug Tsar”. Abbiamo infine deciso di togliere la parola “drug” per evitare discussioni e inutili polemiche.
 
“Band – Girls - Money” è senza dubbio interessante come dichiarazione d’intenti, complimenti. A che punto siete con questo programma?
 
(Ride) Per i primi due punti non ci possiamo lamentare: quando hai una band le ragazze vengono di conseguenza, naturalmente. Per quanto riguarda i soldi non ci siamo ancora, magari in futuro. Speriamo.
 
So che avete avuto una brutta esperienza con il vostro primo contratto discografico, con la Hollywood Records che vi ha praticamente sabotato per qualche anno. Firmare un contratto spesso rappresenta la realizzazione di un sogno, ma a volte può rivelarsi un incubo.
 
Oh, ci puoi scommettere. Non ho dati precisi in mano ma ti assicuro che il 99% delle band che firmano per una major e fanno un primo album che non ha successo, magari non per colpa della band stessa ma per strategie promozionali sbagliate e così via, passa attraverso un vero e proprio calvario. Nel nostro caso, noi abbiamo firmato un contratto e ci siamo messi nelle loro mani perché pensavamo fossero dei professionisti, invece dopo il flop del primo album siamo stati completamente abbandonati, volevamo farne un secondo ma loro non ne volevano sapere, si negavano, ci ostacolavano in tutti i modi, eravamo come in trappola. È stato terribile, scioccante. Ora per fortuna con la nuova etichetta, la TVT, abbiamo ricominciato ad avere fiducia in questo mondo che ci aveva così deluso.
 
Ho visto sul vostro sito che spesso tu ti esibisci usando una bandiera americana a mo’ di mantello. Cosa significa? È una dichiarazione di patriottismo?
 
No, non direi. È solo una semplice posa. Ho sempre amato le band che curavano l’aspetto teatrale delle performance e con la mia tento di fare lo stesso. La bandiera è solo un bell’accessorio, potente, scenografico. Non c’è nessun messaggio particolare dietro.
 
Un po’ come la usava Freddie Mercury.
 
Ecco sì, proprio così.
 
Sbaglio o la vostra You Can’t Always Want What You Get è una citazione di You Can’t Always Get What You Want dei Rolling Stones?
 
Sì lo è. Vedi, molte band, mi vengono in mente i Jet e i The Killers ad esempio, hanno la tendenza a citare i propri idoli del passato sempre e solo dal punto di vista del suono, della musica. Io preferisco un’altra via: usare i testi, le frasi degli artisti che amo, scomporle, reinventarle. Nei miei testi trovi citazioni di Micheal Jackson, così come dei Nirvana…
 
…anche dei Bon Jovi mi pare.
 
Bon Jovi?
 
Beh, “Shot to the heart” (da Conqueror Worm) è un attacco tipicamente bonjoviano.
 
(Pausa di qualche secondo, seguita da una risata tra il divertito e l’imbarazzato) Oddio è vero! Non ci avevo mai pensato. Vedi in un certo senso è anche naturale: sono un grandissimo consumatore di musica e a volte le citazioni, come in questo caso, vengono fuori anche in modo involontario, inconsciamente. Ogni tanto mi succede anche quando parlo normalmente con le persone.
 
Mi incuriosisce molto il fatto che agli esordi avete fatto da spalla ai Duran Duran, un gruppo abbastanza lontano da voi musicalmente. Anzi, si dice che sia stata proprio questa esperienza a danneggiare la vostra immagine e di conseguenza le vendite del vostro primo disco? Cosa mi dici di quell’esperienza?
 
Mah, quel tour resta comunque una delle esperienze più importanti della nostra carriera. Conservo ancora un ricordo magnifico di quella magica estate, i Duran sono delle gran persone e ci siamo divertiti moltissimo. D’altro canto è innegabile che non fu una scelta felice, un certo disagio c’era. Noi eravamo una band sconosciuta, giovane, suonavamo rock abbastanza duro e la gente era venuta lì per tutt’altro, per una serata tranquilla di amarcord in cui sentire Simon che cantava Hungry Like The Wolf. Puoi immaginarne benissimo la reazione.
 
Un’ultima cosa: in Italia molte punk-rock band americane sono oramai delle celebrità, basti pensare ai Green Day, ai Blink 182 e di recente ai Simple Plan. Cosa offriranno di diverso gli Tsar da per farsi notare in un panorama già affollato da band di successo. Con cosa contate di stupire il nostro pubblico?
 
Mah, prima di tutto penso che rispetto a quelle che hai citato tu la nostra band sia meno inquadrabile in un determinata categoria di rock. Poi spero che il pubblico apprezzi il nostro particolare approccio alla musica: un mix di sincerità, ironia, humor e… beh, lo dico… intelligenza.
 
Come concludere allora? “God Save the Tsar”?
 
Cool. Sì, mi piace.
 
Antonio Casillo
 
13 settembre 2005
 
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