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THE STREETS |
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THE STREETS... IL NUOVO SOUND DELL’ HIP HOP INGLESE |
Ok. Hip-hop. Pensate all’hip-hop. Cosa vi viene in mente? Eminem. 50 Cent. I Black Eyed Peas. E questa è solo la punta dell’iceberg visibile e baciata dal sole; sotto ci sono tanti altri nomi, noti o meno noti, ognuno con la propria cosa da dire in maniera più o meno brillante. Però a pochi sarà venuto in mente The Streets. E non mentite! Ma noi siamo qui per farvi venir voglia di conoscere quella che riteniamo una delle più interessanti promesse del panorama musicale inglese.
Allora, innanzitutto chiarezza sul nome. The Streets non è una crew ma il nom de plume di un effervescente MC 24enne di Birmingham, Mike Skinner; un nome indovinato, come dice lo stesso Skinner: “E’ un gran bel nome. Perché rievoca quello che vedi dovunque tu vada; è l’Inghilterra che lavora, la popolazione media”.
Già dalla presentazione è chiaro che The Streets ha poco da spartire con la gangsta attitude o con il mondo bling bling (soldi, soldi, soldi) che ruota attorno al rap d’oltreoceano. The Streets è diverso. Lui non ha mai bevuto a collo da una bottiglia di champagne, non ostenta vestiti firmati e non guida macchine da sogno; ma attenzione, non è nemmeno un arrabbiatissimo del ghetto. “La mia vita è normale. Non ho mai vissuto nei palazzoni tristi e soffocanti, ma nemmeno son nato nella bambagia”. Lontano dalle pistole e dai catenoni d’oro, quindi, e aderente a quella che è la vita vera. E la vita vera è il tema dominante dei suoi pezzi: autentici spaccati di everyday life della gioventù inglese, che si impantana mollemente tra Playstation, McDonald’s, club, alcool, droghe leggere, autobus e palestre; altroché glamour, altroché vita da star. La poco scintillante e prevedibile city culture, la vita di chi vive la vera vita senza affondare e senza levitare.
E come arrivare dritto al cuore delle persone reali? Parlando la loro stessa lingua ovviamente; quindi bando ai raffinati virtuosismi verbali di Eminem, bando alle accattivanti basi dei BEP. The Streets rappa con un accento piacevolmente cockney su semplici basi garage, niente di elaborato, niente orpelli, l’attenzione deve cadere sul bersaglio dei suoi sberleffi: la gioventù inglese.
Già a nove anni Skinner sapeva che voleva fare dei dischi; un’autentica passione per le tastiere, strimpellate da quando aveva appena cinque anni. Poi la luce: la scoperta dei dischi del fratello maggiore; largo a Beastie Boys e De La Soul, e largo alla scelta di vita di fare hip-hop. La sua cameretta diventa una vera e propria centralina del rap, attrezzata con rudimentali strumenti ed un Amiga, e un punto nevralgico per tutti gli amici che volevano fare una canzone; fortunatamente i genitori vedono la cosa positivamente, nonostante l’incessante viavai di giovani MC e i rumori sordi che provenivano da quella cameretta lassù.
A 18 anni Mike inizia a respirare i primi aliti della house music e del garage londinesi; “La mia musica trasuda garage pur non avendo io assorbito il garage di Londra. Il garage è una cosa da club, da condividere con un pubblico di gente che balla; per me invece era una cosa lontana, che mi facevo a casa mia per conto mio. Anche noi avevamo i club, ma non la cosa glamour che si può trovare a Londra, o la cosa divertente tipica della Spagna. Ecco, io invece ho preso il garage da un diverso punto di vista, completamente nuovo”.
Il punto di vista nuovo è l’innesto su queste basi garage del lavoro di MC di Skinner; “Con un beat garage viene naturale accelerare e provare a sfondare ogni limite per un MC; al contrario io cercavo un sound più sulle corde di quello newyorkese. Per tanto tempo ho provato, provato, e i risultati erano pessimi; ora invece ho trovato l’equilibrio giusto”. Il ritmo e l’elevata musicalità delle rime di The Streets hanno portato i suoi pezzi ad essere cannibalizzati dal sampling; ma lui non si scompone al riguardo, anzi: “Io stesso faccio un sacco di campionature; sono cresciuto nell’era digitale e campionare è una cosa normale. E se qualcuno ‘smembra’ i miei pezzi e li campiona per me va bene; la cosa mi lusinga, è un complimento”.
Il primo risultato è “Has It Come To This”, pezzo fatto in casa da Mike Skinner e prodotto dalla Locked On che esce a fine 2000; l’ingresso ad inizio 2001 nella Top20 inglese di questo emerito sconosciuto spalanca le porte a The Streets per la pubblicazione nel 2002 dell’album di esordio “Original Pirate Material”. In Inghilterra è successo, tanto che l’etichetta Vice prova ad esportare il lavoro in America; da questo album vengono tratte le hit “Let’s Push Things Forward”, “Weak Become Heroes” e “Don’t Mug Yourself”. Forse il riconoscimento più prestigioso è però la nomination al Mercury Music Prize, rassegna annuale in cui concorrono i 10 migliori album della scena musicale inglese in termini di innovazione, originalità , qualità e vendite.
E dopo nemmeno due anni dall’eccezionale riscontro di pubblico e critica ecco tornare The Streets con un nuovo album, “A Grand Don’t Come For Free”, fuori a maggio, e preceduto dallo strepitoso singolo “Fit But You Know It”. Ironico, originale, travolgente; “Fit But You Know It” è un pezzo che parla di una sorta di colpo di fulmine in fila al fast food, il tutto condito da un sarcasmo pungente che colpisce dritto alla consapevolezza boriosa di chi sa di piacere. Si sente che The Streets è genuino, che quello che fa non è frutto di una vita inventata per seguire la moda o il facile sentiero del commerciale; eppure The Streets è tremendamente accessibile, forse perché parla di gioventù fiaccamente abbandonata al grigiore della vita quotidiana, e perché lo fa su basi che enfatizzano la sua frizzante e dilagante ironia.
Da ascoltare, magari quando siete in coda in auto, o durante il viaggio in autobus, o mentre aspettate il vostro turno al panificio; insomma, da ascoltare in momenti di vita reale.
Elisa Bellintani
21 aprile 2004 |
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