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 AMOS LEE
AMOS LEE AMOS LEE ... ISTINTO NATURALE PER IL FOLK A TINTE SOUL
AMOS LEE ... ISTINTO NATURALE PER IL FOLK A TINTE SOUL
C’è decisamente sovraffollato nella musica a tinte blues, in questi ultimi anni. Congestione del genere, quasi. Eppure, in mezzo al bombardamento acustico di chitarra, pianoforte e voce, si fa largo a gomitate – ma da gran signore – un notevole Amos Lee.
Amos Lee, con appuntato il distintivo di emergente, con la sua inseparabile chitarra e la sua voce incredibilmente calda ed avvolgente, con il suo bagaglio emotivo che, come un vaso di Pandora, si apre e lascia fluire fuori aromi e note di incomparabile dolcezza. Amos Lee parla chiaro e semplice, e riesce ad emozionare chi lo ascolta regalandogli un micromondo che viene contemporaneamente percepito come personale ed universale.
In che modo riesca a trasmettere calore, un calore quasi affettuoso, e a leggerti dentro così bene, resta per me un mistero. Boh. Proviamo a scoprire dove sta il trucco.
 
Amos Lee ha 27 anni, nasce a Philadelphia e cresce nel New Jersey. Niente di eclatante o degno di nota. Uhm. Continuo a cercare. Si iscrive all’università nel 1995, e lì inizia a suonare la chitarra; si laurea in Inglese e intraprende l’abbastanza ovvio percorso dell’insegnamento. Il trucco, il trucco … L’incontro con la musica lo segna profondamente, tanto da apparirgli doveroso e coerente dedicarsi totalmente a questa sua grande passione; e molla le scuole elementari. Sì, ok, ma dove sta la chiave di volta?!? Anche perché questo Amos Lee riesce a conquistare le platee dei locali dove si esibisce, proponendo un’inedita commistione di soul e folk, dove il soul scaturisce dallo spessore emotivo dei testi e la radice tradizionale del folk si respira dalla melodia e dal ritmo della chitarra. E questo Amos Lee arriva anche ad aprire alcuni concerti per Bob Dylan e BB King, e nel 2004 addirittura Norah Jones lo sceglie come “apripista” per la tranche europea del suo tour. Ma come fa? Anche perché, ve lo ricordiamo, Amos Lee non ha ancora pubblicato un disco. L’omonimo debutto Amos Lee” è infatti da poco uscito.
Il trucco lo capisco non appena lo vedo arrivare. Amos Lee ha una cosa che non capita spesso di incontrare: la naturalezza. E’ un misto di semplicità, immediatezza, entusiasmo, passione, interesse, insomma, naturalezza. E’ un fascino inconsapevole, che viene da dentro, che irradia dalla sua persona e catalizza chi lo incontra. Amos Lee ti fa subito capire che è uno come te. Con la marcia in più di sapere cosa senti dentro e riuscire a portarlo fuori.
 
Sul disco c’è una vecchia conoscenza, “tale” Norah Jones, che suona il piano e canta in alcune tracks. La stessa Norah che ti ha fortemente voluto come opening act per il suo tour europeo. Come è nato questo incontro-scambio artistico?
 
Io e Norah siamo della stessa etichetta, la Blue Note. E’ capitato che un giorno Norah passasse negli studio proprio mentre io stavo registrando, ha sentito la mia musica e se ne è innamorata all’istante. Chiaramente, io ero già pazzo di lei. Lavorandoci insieme poi ho scoperto che il suo talento e il suo carisma vanno ben oltre la voce e la musicalità; Norah ha un fascino concreto e pragmatico che fa di lei la compagna di lavoro ideale per ogni artista del nostro genere.
 
E come te la sei cavata ad intrattenere migliaia di persone che aspettavano di sentire e vedere Norah Jones? Tra l’altro mi pare tu abbia anche aperto un concerto di Bob Dylan …
 
Aprire i concerti di qualcuno di grande e importante ha i suoi lati positivi e negativi, ma soprattutto positivi. C’è l’emozione di esibirsi davanti ad un pubblico vasto, un po’ di paura perché sai che non sono lì per te, però quando ti accorgi che, proprio in forza del fatto che nessuno sa chi sei, sei riuscito a coinvolgerli e a divertirli allora ti rendi conto che non c’è nulla di meglio del contatto diretto col pubblico. L’opening act è un bel banco di prova: se passi quello, puoi dire di essere pronto e maturo per esibirti da solo.
 
Tu non sei nato musicista, nel senso che fino a qualche tempo fa eri un insegnante di inglese. Cosa passa tra l’insegnare al fare musica?
 
Le due cose non hanno molto in comune, secondo me, perché una cosa è educare la gente, una cosa è intrattenerla. Ci vuole passione in entrambe, questo sì, però non c’è un anello di congiunzione tra queste due attività. Semplicemente, io volevo fare l’insegnate, solo che quello non era il momento giusto; sentivo dentro di me il bisogno di fare musica, di cantare, scrivere, suonare, e non quello di insegnare. Capito questo, la scelta è stata immediata.
 
Hai detto di essere appassionato della musica soul-folk datata pre-1976. Perché questa precisa presa di posizione?
 
Perché, a mio avviso, la musica folk di quel periodo era più ricca, più genuina, più sentita; sono cresciuto con quella musica, quindi per me è quello il modello di riferimento, l’assoluto a cui rifarmi. Di quei tempi mi piacevano molto Bill Withers, John Prine, Dave Van Ront e Stevie Wonder.
 
C’è una canzone sul disco, “Soul Suckers”, dove mostri interesse per la questione spinosa del music system, delle case discografiche che vogliono importi come essere e cosa fare per avere successo. La cosa ti ha toccato in prima persona?
 
Fortunatamente nessuno mi ha mai detto di vestirmi, atteggiarmi o peggio ancora di fare musica in un certo modo per poter vendere. Se pure dovesse mai capitare, non sono certo il tipo che si piega, io sono così e per stare bene con me stesso così devo restare. Però il problema esiste, eccome. C’è troppa ricerca della perfezione, c’è troppo interesse per i gusti del pubblico, ed il risultato è che dove le vendite contano per sopravvivere, e penso innanzitutto alla musica pop, ci si ritrova con decine di cloni costretti a nascondere la propria personalità. E’ una cosa terribile.
 
“Amos Lee” è un disco molto intimo. C’è qualcuno in particolare a cui ti senti di dedicarlo?
 
Non c’è una persona sola in particolare a cui lo dedico. Tutta la mia famiglia ed i miei amici, che mi sono stati vicini credendo in quello che facevo ed amandolo. Non c’è incoraggiamento più bello che potessero darmi, e questo è il mio regalo per loro.
 
Elisa Bellintani

15 febbraio 2005
 
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