Passi se non ricordate i The Beatings; passati tipo meteora sulla scena rock inglese, sembravano essere tornati dritti dritti nel nulla dal quale erano emersi, lasciando in eredità un paio di pezzi neanche tanto originali, come “Jailhouse” e “Bad Feeling”. Stavolta però siamo certi che vi ricorderete dei Beat Up, una delle band emergenti della scena garage-rock londinese, con un disco in arrivo per la talentscout FantasticPlastic Records, “Black Rays Defence”. Che guarda caso, altro non sono che quei Beatings desaparecidos, solo col nome cambiato in qualcosa di un pochetto più intrigante. E di intrigante i Beat Up offrono quasi esclusivamente il nome, perché per il resto, musicalmente parlando, i brividi scarseggiano. Cioè. Non nel senso che non siano bravi o piacevoli, però è una declinazione prevedibile dell’impronta garage-punk che i 4 seguono. Se la pelle d'oca non scatta, non scatta. Il graffio rock abrade le orecchie di chi si mette all’ascolto, e le chitarre sono le protagoniste assolute della linea melodica dei Beat Up, in assolo, in gruppo, ma sempre e soprattutto chitarre; il che è un sempre gradevole ritorno al passato, quando il rock era nuovo e non aveva bisogno di inventarsi espedienti scioccanti per guadagnare l’attenzione del pubblico. Quindi, chitarre e voce usata come strumento di ossessione ribelle, con ben ferma nelle gambe la voglia di saltellare e nella testa la spinta all’headbanging. Ai Beat Up non manca certo energia e voglia di fare. E quello che lascia piacevolmente sorpresi è che ai Beat Up non manca nemmeno una certa profondità lirica sufficiente a farci “ascoltare” (non sentire) le loro canzoni; vero, si parla sempre di disagio, dubbi esistenziali, droghe e ragazze, solite cose trite e ritrite, però lo si fa con una certa classe narrativa, il che non guasta mai! E con un’enfasi teatrale che garantisce quello spessore emotivo che dà sapidità ad un gruppo rock. Quello dei Beat Up è un bel pasticcio, ops, volevamo dire un bel pastiche di gusto retrò per tematiche e punti cardine del rock, assemblato come solo a Londra (e guidati da un produttore come Kevin Shields) sanno fare con una attitude al ripiegamento maudit. Ascoltando “Black Rays Defence” gorgogliano le viscere, impossibile che non salga la voglia di spaccare qualcosa (uao, le chitarre, come ai gloriosi tempi dei Clash!), e non c’è modo di non pensare “ehi, questo sì che è rock n’roll!”. Già sentito, immaginabile, non indispensabile. Ma questo sì che è rock n’roll. Elisa Bellintani 9 febbraio 2005 |