Lou Barlow è un personaggio sfuggente, per nulla eccentrico, tranquillo, pacato, che soppesa ogni cosa e raramente si lascia trascinare da un entusiasmo cieco, insomma, un normalissimo ragazzo americano che a prima vista dimostra molti meno dei suoi anni (40), ma che poi apre bocca e tu non puoi fare a meno di ascoltarlo. Uno che lo guardi e pensi: “ma come è possibile che abbia così pesantemente influenzato un’intera generazione di cantanti?”, tanto per fare un nome, Kurt Cobain. Però … qualcosa di magnetico Lou Barlow ce l’ha, eccome.
Qualcosa di irrisolto, tormentato, profondo, qualcosa che senti come estremamente passionale eppure silenzioso, strisciante, mai esplicitamente dichiarato. Qualcosa c’è, e su “EMOH” si sente benissimo.
“EMOH” è il primo disco che porta la firma Lou Barlow. Prima era Dinosaur Jr, Folk Implosion, Loobiecore, Sentridoh, Sebadoh, ora è finalmente, semplicemente, sublimemente Lou Barlow. “EMOH” è “home” al contrario, un disperato tentativo di tuffarsi nell’intimità delle pareti domestiche alla ricerca delle proprie più profonde sensazioni. Home è il luogo più sicuro, più caldo, il sacrario dell’emotività di ognuno, è la sacca materna che protegge e che dà benessere, è dove si può finalmente essere se stessi. Home, la casa, è anche dove la maggior parte delle canzoni dell’album sono state registrate, tra quattro mura, nel calore e nella semplicità di una camera improvvisata studio di registrazione. Home è quello che Lou Barlow ci vuole raccontare, sono scampoli di vita vissuta suggeriti in tono pacato e rassicurante.
“EMOH” è pericoloso ed insidioso, non fosse altro perché è solo voce e chitarra, e pochi essenziali arrangiamenti. “EMOH” è pigro e malinconico, elusivo ed autentico, ma sempre con quel qualcosa di incompiuto, come se mancasse il colpo deciso che ti fa esclamare “oh, che bello!”; forse perché non è immediato, e perché richiede concentrazione, ascolto attento, per gustarlo appieno.
La tua musica è molto particolare ed affascinante. Come la definiresti? Acustica. E’ tutta voce e chitarra, qualche arrangiamento un po’ più articolato qua e là ma essenzialmente è sobria, quasi spoglia. Così l’attenzione va tutta sui contenuti, sulle parole. Del resto non poteva che essere così, dato che gran parte delle registrazioni è avvenuta tra le pareti di casa mia.
E l’ispirazione per questi testi così densi e ricchi di sentimento? Viene dalla vita vera, dalle mie esperienze, che ultimamente non sono state così belle, e quindi la mia musica ha preso questa increspatura triste e si è come ripiegata su se stessa. Fare musica mi aiuta a superare le mie delusioni e le mie tristezze, e per di più ci si ritrovano tutti, quindi piace, è sentita come vera.
Cosa è cambiato rispetto ai primi anni ’90, quando ti eri da poco affacciato sulla scena musicale? Come prima cosa oggi esce un disco che porta il mio nome, e non quello fittizio di side projects o collaborazioni; “EMOH” è tutto mio, “EMOH” sono io. E poi anche il mio modo di fare musica è cambiato, uso molto meno le campionature e faccio una cosa molto più naturale, più vera.
Ho visitato il tuo sito ed è un monumento all’immersione nei link. E da lì ho scoperto la tua mania per i gatti … Sì, più che una mania è una vera e propria adorazione … ho 3 gatti a casa, e purtroppo ne è scappato uno un po’ di tempo fa, e la cosa mi ha fatto molto soffrire; per questo motivo ho scritto e dedicato una canzone al mio gatto che non c’è più, “The Ballad Of DayKitty”. Per quanto riguarda il sito, mi piacciono le cose che vanno cercate e cercate prima di essere scoperte.
Il 2004 si è appena concluso. Musicalmente parlando, cosa salveresti? Devendra Banhart, e Joanna Newsom col suo “Milk Eyed Mender” su tutti.
Collaboreresti volentieri con qualcuno di loro? No, con nessuno. Non mi sento di assomigliare a nessuno, mi va bene fare le mie cose per conto mio, mi sento più inquieto e travagliato rispetto a questi artisti.
E cosa ne pensi del fenomeno che ha visto moltissimi artisti americani schierarsi contro Bush? Tipo i R.E.M., i Green Day … I Green Day ti sembravano schierati? A me sono più che altro sembrati dei furbetti, che hanno cavalcato l’onda della disapprovazione senza mai esporsi in prima linea dicendo apertamente “io non ci sto”. L’ambiguità non mi piace, e l’ambiguità fatta per vendere men che meno. Quindi dico: la politica fuori dalla musica, o meglio, uno può anche avere delle idee sue e farle sapere, ma la musica è tutta un’altra cosa.
Elisa Bellintani 11 gennaio 2005 |