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 WILLIE PEYOTE
WILLIE PEYOTE L´OUTSIDER DEL RAP
L´OUTSIDER DEL RAP

Willie Peyote è la bella anomalia, il diverso che intriga, il rapper che ha “sfruttato” il momento per distinguersi. In gergo sarebbe un outsider e lui ne è solo contento. Gli abbiamo chiesto perché e poi un sacco di altre cose.

Lo dici anche tu: “io non rimo, dipingo, mi distinguo”. Cosa pensi di tutte queste cose che si dicono di te?

Che è sicuramente bello sentirselo dire perché in effetti è tutta la vita che cerco di distinguermi non solo nella musica. Non so quanto sia vero poi nella realtà dei fatti ma il fatto che ci sia quella percezione significa che stiamo andando nella direzione giusta, quella che ci eravamo prefissati.

Peyote451(L’eccezione), uno dei singoli del tuo album, parla proprio di questo, vero?
Assolutamente. È il brano che apre l’album e che in un certo senso ne definisce e riassume la cifra stilistica. Si capisce subito che è un brano diverso dai miei precedenti ed è stato scelto anche come primo singolo per questo stesso motivo. Rime hardcore su un tappeto vagamente blues, cassa dritta e poi l’apertura “Grignani ubriaco” che non ti aspetti nel ritornello.

La mia impressione è che i tuoi testi siano più ragionati. Ci lavori a fondo o li butti giù così come li pensi?
Tendenzialmente sono una persona che pondera ciò che dice, figurati ciò che scrive.

Anche perché tu non fai nemmeno freestyle: non ti appartiene come stile o ci sono altre motivazioni?
L’ho fatto in passato, come tutti del resto. Una decina d’anni fa mi divertivo con Shade, Rew e altri amici a fare cypha nei parchetti però loro sono sempre stati più bravi di me e si sono allenati con costanza, io ero troppo pigro e ho preferito concentrarmi su qualcosa che mi veniva già meglio all’epoca.

Cosa pensi del panorama musicale italiano del momento?

Ascolto troppo poco per poterne dare un giudizio e tra quello che ascolto non mi piace quasi nulla. Mi piace il rock alternativo, se così possiamo chiamarlo, ma non i gruppi che si prendono troppo sul serio. Provo spesso ad avvicinarmi al cantautorato giovane italiano ma mi "cadono le palle" dopo il primo pezzo, qualunque sia l’artista. Mi spiace, io provo a dargli una chance ma niente. Penso che possa esserci qualche possibilità che il rap, almeno in alcune sue forme che si stanno sviluppando nel nostro paese, possa andare a colmare un vuoto tra la musica per così dire d’autore e il pop più leggero, purché la fretta e l’ansia di raggiungere e mantenere certi numeri non diventi preponderante. Non sono molto fiducioso, ma poi guardi Caparezza e pensi che qualcosa si può fare dai.

Come è iniziato il tuo percorso artistico?
Famiglia di musicisti, ho cominciato in adolescenza accompagnando mio padre in veste di roadie nei sui concerti con un gruppo rock steady. Mi piaceva il rap fin da piccolissimo ma la prima esperienza attiva è stata con un gruppo punk nel quale suonavo il basso e componevo i brani. In 5° superiore ho incontrato Kavah e Shula e con loro ho iniziato ad approcciarmi al rap seriamente. Poi ho anche smesso per dedicarmi alla batteria in un gruppo più o meno post-rock, ma questa è un’altra storia.

Un percorso arrivato poi a Educazione Sabauda che hai raccontato magnificamente. Vuoi ripetere qualcosa  ai nostri lettori?
Che dire, questo disco racconta l’ultimo anno e mezzo, quello che amo definire "il periodo di merda più bello della mia vita". Attraverso la descrizione di situazioni, sensazioni e elucubrazioni, Educazione Sabauda in realtà racconta la disperata ricerca della verità, ammesso che esista.

Quanto le collaborazioni con Frank Sativa, Kavah e Koma hanno contribuito a rendere il tuo album così com’è?
Senza di loro nulla sarebbe stato possibile. In particolare Frank si è occupato con me della composizione e dell’arrangiamento anche dei beat non prodotti direttamente da lui. L’apporto poi dei vari musicisti ha alzato ulteriormente l’asticella portando il disco dove neanche noi ci aspettavamo a livello musicale.

Poi vorrei chiederti della presenza di tuo padre nel disco. Vecchio, ho fatto un sogno riproduce una vostra telefonata…

Sì, ci sono due telefonate con mio padre, cioè vere telefonate registrate da lui a mia insaputa nell’arco di questo famoso anno e mezzo. La prima si trova alla fine di Che bella giornata (brano nel quale mio padre suona anche la batteria) ed è la telefonata con cui gli comunicavo il mio licenziamento, la seconda all’inizio di E allora ciao, brano che chiude il disco.

E cosa mi dici invece di Io non sono razzista ma..?
Che spero ti piaccia. Nulla, volevamo approcciarci ad un tema caldissimo in questo momento in Italia cercando di prendere in giro tutti i luoghi comuni sull’argomento mantenendo una linea ironica e satirica, se così si può dire.

Dove ti vedremo nei prossimi mesi?

Spero il più possibile in giro per l’Italia a diffondere un po’ di nichilismo sabaudo.


Testo di Matteo D´Amico

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