Dall’humus sotterraneo del post-rock italiano, germogliano prodigiosamente i giovanissimi Sedia, band anconetana che, con questo minialbum d’esordio, mettono subito in chiaro quali sono le loro intenzioni: dissacrare la classica forma canzone rock, facendone a pezzi ogni cliché a suon di bordate rumoristiche e di destrutturazioni ritmiche.
Malgrado i componenti siano poco più che ventenni, il miglior pregio dei Sedia è la personalità. Lo dimostrano le sei composizioni che fanno parte di questo lavoro e dall’impianto sonico messo in piedi: esclusivamente strumentale, ostico e spigoloso, frutto di un impulso creativo genuino e spontaneo, scaturito più dall’improvvisazione che da una partitura pensata e ricercata.
Per rendere l’idea, “Stalker”, la prima traccia, inizia con un incidere impetuoso e claustrofobico, una specie di progressione di suoni e dissonanze senza tregua, come la centrifuga di una lavatrice impazzita. “Moholy Nagy” è una sorta di proto-rock, primitivo e appena abbozzato, con basso e chitarra stoppati, il suono nell’insieme è annichilito, e la voce intona lontanamente un lamento delirante, mentre singolari e destabilizzanti sono le soluzioni ritmiche ad armoniche di “Kinsky contro Volontè”. “Tadao Ando” è il brano più interessante dell’album, colmo di drammaticità e pathos, è una specie di fuga noise struggente e nevrotica. In questo caso ad aleggiare nell’atmosfera creata sono i Sonic Youth di “Dirty”.
I Sedia come un prezioso patrimonio da tutelare. |