Per tutti coloro che amano quel rock oscuro e disperato, non può essergli sfuggito un disco come l�esordio dei tre londinese dei White Lies. Quando il talento è innato non servono investimenti economici da capogiro per raggiungere il successo; la musica parla da se e abbatte ogni pregiudizio. Hanno un approccio diretto con la loro generazione, tutto il resto non conta. Il loro rock è impregnato di post-punk alla Joy Division, hanno un linguaggio che si lega perfettamente con il senso di incertezza e impotenza che sta trafiggendo la società in questa fase di contrazione. Anche da un punto di vista lirico gli argomenti sviluppati vanno per mano alla morte. Un filo conduttore tra aldilà e rock che il tempo e la società non riusciranno mai a debellare. Rievocano nelle loro elucubrazioni i fasti di miti come la band del defunto Ian Curtis, o le poetiche e macabre visioni di Nick Cave. “To Lose My Life” è un disco che esprime un profondo pessimismo e la sola interpretazione del titolo mostra di quale pasta sono fatti i tre inglesini che vestono rigorosamente in nero. Una desolazione agghiacciante, in controtendenza con l�hype dell�attuale scena musicale. Forse è proprio questo il segreto del loro successo. Non passa un minuto nelle loro canzoni senza citare la morte, una ricorrenza ossessiva che ti opprime e ti pone di fronte ad un dilemmi che tutti prima o poi dovranno affrontare. Vibranti episodio che tracciano echi condivisibili con Iterpol ed Editors , per citare i più recenti, ma anche Talking Heads e Echo And The Bunnymen. Ascoltare brani come la title track, Death o Unfinished Business non è semplice, non si tratta di una tranquilla passeggiata sulle rive del Tamigi, ma di un percorso ostico nella tormentata esistenza. A dipingere queste dolorose tele sono tre ventenni: Harry McVeigh (Voce, chitarre), Jack Brown (batteria), Charles Cave (Basso, cori). Alla ricerca di una felicità che sembra non esistere; con la volontà di sopravvivere in un mondo dove la felicità non ha appigli dove aggrapparsi.