È quasi un concept album quello che segna il ritorno dei baresi Ultraviolet a tre anni distanza dal loro debutto. Il filo comune che unisce gli undici pezzi in scaletta è la saturazione, intesa come overload, sovraccarico, eccesso, pressione, in svariati ambiti dell'esistenza umana. Progetto ambizioso e, a posteriori, non alla loro portata. Per dire "basta" a questo stato non ulteriormente tollerabile, gli Ultraviolet infatti giocano la carta della provocazione, che tuttavia non sortisce il dirompente effetto auspicato. Troppo poco melodici per essere pop, troppo poco incisivi per essere rock, i Saturazione rimangono in una terra di mezzo (peraltro già abbastanza popolosa) in cui è difficile spiccare. La produzione artistica (di Mimmo Lezza, Stefano Mariani e gli stessi Ultraviolet), che probabilmente intendeva conferire ulteriore freschezza ad un disco già per sua natura scarno, finisce per indebolirlo anziché renderlo graffiante, e anche la bella voce di Gianclaudia Franchini ne rimane penalizzata. I testi si invischiano nei soliti comuni: la televisione ci vuole comandare ma noi non glielo permetteremo "Teleillusione", uno dei brani migliori, dal ritornello molto azzeccato, ti penso anche se ti ho perso senza rendermene conto "Lovestreet", la natura ci punirà per le nostre ipocrisie "Quasi pioggia" e via discorrendo. Dulcis (anzi, amarus) in fundo, un appunto polemico stavolta me lo concedo io. Il booklet è costituito da 12 pagine completamente bianche, proprio per ribadire il concetto di saturazione, che gli Ultraviolet associano al colore bianco. Più che una provocazione, a me sembra una presa per i fondelli nei confronti di coloro che, pur potendo scaricare musica illegalmente a costo zero, scelgono di investire una quindicina di euro nel disco di una nuova band nostrana. Se domani dovessero smettere di farlo, non avremmo di che stupirci. A buon intenditor... |