È incredibile come il contesto in cui si ascolta la musica possa influenzarne sensibilmente la percezione. I Bachi da Pietra, ad esempio, li ho ascoltati per la prima volta in macchina, mentre mi perdevo per le strade di Bologna a notte fonda. Mi era sembrato un disco claustrofobico e ansiogeno, e avevo dovuto subito toglierlo dal lettore cd per non impazzire. Riascoltandolo nella tranquillità della mia stanza, l’impressione è diversa. “Tornare nella terra” è un disco affascinante, crudo e spigoloso. A cominciare dai testi, che rivelano un dolore fisico: non un malessere, non un disagio interiore, quanto piuttosto una ferita che sanguina. Opacità quotidiana e lampi di luce inattesa vengono raccontati da Giambeppe Succi (ex Madrigali Magri) con voce soffocata, angosciata, al limite della paranoia. La sua chitarra, essenziale ed evocativa, si lascia a volte andare a sferzate di frenesia come in “Solare” e “Prostituisciti”, mentre la mezza batteria di Bruno Dorella (già nei Wolfango) rimbomba con solennità, scandendo lentamente le nove tracce dell’album come il tempo segna i cicli della natura. Lo spirito è quello del blues delle origini, e il contesto un humus brulicante di insetti e di stelle. La terra come origine e fine: accoglie la morte e rigenera, dando nuova vita. “Tornare nella terra” scava intorno alla condizione umana nella sua bassezza, e le restituisce un’altra dignità, una nuova natura. Indubbiamente un’introspezione che richiede molto coraggio, un viaggio non facile e non per tutti, ma che non può che portare a una consapevolezza che appaga. In altre parole, un disco velenoso, perché veleno e cura, come spesso accade, sono la stessa cosa. |